Covid-19. Sonno e sistema immunitario.

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Servizio di consulenza psicologica on-line. Sicuro, economico (PRIMO COLLOQUIO GRATUITO), riservato ed efficace. Per info e per prenotare un colloquio: contattami al 3478468667. Sono su Whatsapp, Messenger e Skype.

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Diversi studi hanno mostrato un incremento di citochine infiammatorie fra le persone che dormono poco e/o male. Queste catene proteiche sarebbero i prodotti di scarto di una risposta eccessiva da parte del sistema immunitario.

Un fenomeno analogo è stato osservato, in forma molto più intensa (i medici lo hanno paragonato ad una sorta di tempesta infiammatoria), nei polmoni dei pazienti che, a seguito dell’infezione del Covid-19, sviluppano una Sindrome Respiratoria Acuta Grave tale da richiedere il ricovero in ospedale, se non addirittura in terapia intensiva e l’intubazione.

Vista la grande variabilità di sintomatologia dell’infezione da Covid-19, che può andare dalla totale assenza di sintomi fino alla polmonite grave, è importante tenere in considerazione anche fattori aspecifici che possono giocare un ruolo di modulazione della risposta immunitaria, nonché il decorso della malattia.

Uno di questi fattori è, come detto, la qualità del sonno. La quantità ottimale, che è correlata alla qualità, deve essere compresa tra le 6 e le 8 ore (in rari casi anche 5 ore). Dormire di più o di meno può essere la spia di una scarsa qualità del sonno.

L’alterazione delle abitudini di vita può influire sul ritmo sonno/veglia. Nell’articolo del prof. Luigi De Gennaro docente di  PSICOBIOLOGIA E PSICOLOGIA FISIOLOGICA:TEORIE E METODI e di PSICOFISIOLOGIA presso la facoltà di psicologia de “La Sapienza” di Roma, alcuni accorgimenti per il ripristino di una fisiologica alternanza tra sonno e veglia. Spicca, fra gli altri suggerimenti, quello di astenersi dall’utilizzo di dispositivi elettronici, dal fare attività fisica e dal mangiare o bere, almeno 90 minuti prima di addormentarsi.

Clicca qui per leggere la versione integrale dell’articolo.

Altri riferimenti:

https://www.humanitasalute.it/in-salute/benessere-casa-e-lavoro/65379-sonno-e-sistema-immunitario-quale-legame/

https://scienze.fanpage.it/pazienti-con-coronavirus-traditi-dal-sistema-immunitario-cose-la-tempesta-di-citochine/

 

Stare a casa restando in contatto

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“L’Attesa” 2015 di Roberta Maola
Matita su Carta 63/48 cm

Oggi più che mai è fondamentale rimanere in contatto pur stando a casa. L’isolamento può portare con sé ansia, rabbia, tristezza e paura, emozioni che peggiorano il nostro stato d’animo, ci rendono più difficile rispettare le regole, nonché hanno un effetto deleterio sul funzionamento del sistema immunitario.

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Cosa è possibile trovare in un colloquio di consulenza psicologica?

  • Comprensione: in questo momento in cui la priorità assoluta è rimanere in casa e proteggersi e proteggere gli altri dal contagio, trovare uno spazio per esprimere la sofferenza che questa richiesta di disciplina e controllo porta con sé è fondamentale;
  • Informazioni: è importante selezionare le informazioni utili e incoraggianti, scartare le fake news e difendersi dallo stillicidio di informazioni sconfortanti dei quotidiani bollettini medici: l’epidemia si fermerà, allo stesso tempo aggiornarsi continuamente sulla conta dei nuovi contagi, dei decessi e dei guariti, fornisce solo un’illusione di controllo e instilla un senso di ansia ed impotenza. Tutto ciò che possiamo fare è rimanere in casa. 
  • Soluzioni: l’obbligo di rimanere in casa comporta la necessità di trovare anche soluzioni pratiche per svolgere le incombenze quotidiane e per scacciare la monotonia. Nella consulenza psicologica si possono cogliere spunti di confronto per soluzioni creative a queste necessità.
  • Prevenzione disagio psicologico: la consulenza psicologica monitora anche il rischio di sviluppare comportamenti ossessivi, ansie, depressione, aiutando a razionalizzare le difficoltà del particolare momento.
  • Elaborazione preoccupazioni per le attività sospese: lavoro, scuola, relazioni, sono tutte attività cadute in un limbo di sospensione che comporta non solo un danno economico, ma anche contraccolpi relazionali ed emotivi. Ci sono poi persone che al contrario devono fronteggiare difficoltà derivanti dalla sospensione dei servizi genitori con i figli, caregiver familiari di persone con disabilità.
  • Ascolto per operatori sanitari, assistenti domiciliari e altre figure professionali che mantengono servizi essenziali: queste persone si trovano a dover lavorare per garantire attività che sono importantissime per la salute e il sostentamento, al tempo stesso vivono con l’ansia del contagio oltre che affrontando in molti casi turni massacranti.

 

Sola lì rimase speranza: progetto artistico di Roberta Maola

Nell’ambito del progetto si svolgerà il laboratorio espressivo condotto da Lelio Bizzarri “Il peso specifico delle parole” presso il MACRO il 22 dicembre alle ore 11. E’ consigliata la prenotazione a info@bizzarrilelio.it o whatsapp 3478468667.

PROGRAMMA Sola lì rimase Speranza di ROBERTA MAOLA

COMUNICATO STAMPA
21-22 DICEMBRE 2019
Museo MACRO ASILO / BLACK ROOM
“SOLA LI’ RIMASE SPERANZA”
Progetto artistico di ROBERTA MAOLA
Testo critico di Beatriz Leal Riesco

 

[…] Ma la donna di sua mano sollevò il grande coperchio dell’orcio e tutto disperse,
procurando agli uomini sciagure luttuose. Sola lì rimase Speranza […] – Esiodo

 

Ma di cosa è fatta la Speranza? Tra letture, interventi, performance e laboratori, tutti i visitatori sono invitati a realizzare insieme all’artista un’opera partecipata, per rispondere collettivamente a questa domanda.
Come afferma Beatriz Leal Riesco nel suo testo critico: “Roberta Maola ci propone un esercizio di partecipazione e creazione congiunta dell’opera. Trascendendo l’atto di ricezione passiva dell’oggetto artistico e la paternità del genio individuale classici, l’artista ci invita alla contemplazione intima dei dettagli di un disegno iperrealista per poi coinvolgerci in una performance collettiva, semplice in termini di materiali e realizzazione, quanto complessa in termini di proposta concettuale. L’installazione Sola lì rimase Speranza nasce dall’esigenza dell’artista di ricercare risposte collettive al periodo storico complesso in cui viviamo.” È così che l’arte di Roberta Maola, concepita come sinonimo di libertà e come mezzo espressivo per aprirsi al mondo, diventa un invito esplicito in controtendenza alla paura, alla rabbia e all’isolamento esistenziale, che minacciano le relazioni empatiche fra gli esseri umani.
“Di fronte alla lettura veloce e acritica dell’informazione delle reti social e delle piattaforme di consumo audiovisivo, concepite per addomesticarci e condurci a un binge-watching sterile ed infinito, questa installazione ci obbliga innanzitutto a una riflessione attenta, seguita poi da una chiamata all’azione. Ci troviamo davanti a un coraggioso gesto, trasformatore della pulsione visiva in pensiero; un pensiero che diventa testo per trasformarsi, in ultimo, in una voce collettiva ma non per questo priva d’identità”.
Le opere proposte dall’artista saranno gli strumenti attraverso i quali il pubblico interagirà costruendo a propria volta un’opera partecipata, simbolo di un dono che ognuno di noi può fare agli altri: il regalo autentico della collaborazione, dell’impegno e della solidarietà.
Conclude Beatriz Leal Riesco: “Il percorso artistico di Roberta Maola, fino ad oggi caratterizzato da disegni iperrealisti a matita su carta, realizzati con impressionante maestria e minuziosità, compie con questo progetto un passo in avanti, dimostrando la sincronia dell’artista con il suo tempo e collocandola al centro, affinché in futuro possa occupare differenti spazi di riflessione […].”

Tutto il progetto artistico, realizzato con il patrocinio dalle associazioni culturali Hidalgo, Officina d’arte, Aspic Psicologia e SIPAP-Società Italiana Psicologi Area Professionale, si svolgerà nella Black Room del MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, Sabato 21 e Domenica 22 Dicembre 2019; in programma anche l’Autoritratto dell’artista nella Sala Cinema. Nel corso delle giornate verranno proposte al pubblico diverse attività che vedranno alternarsi come ospiti artisti ed esponenti di diversi ambiti culturali e professionali, tra cui Tomaso Binga, Lelio Bizzarri, Laura Cianca, Stefano Crispino, Giulia Del Papa, Roberto Gramiccia, Michela Lardieri, Paola Romoli Venturi e Silvia Stucky.

Programma:
Sabato 21 ore 17-22
ore 17,00 Accoglienza;
ore 18,00 Lettura di Laura Cianca a seguire interventi di Stefano Crispino, Roberto Gramiccia e Roberta Maola;
ore 19,00 Performance di Tomaso Binga.

Domenica 22 ore 10-13 e 15-20
ore 10,00 Accoglienza;
ore 11,00 Laboratorio espressivo “Il peso specifico delle parole” condotto da Lelio Bizzarri;
ore 15,00 #AUTORITRATTO in Sala Cinema;
ore 17,00 Lettura di Michela Lardieri a seguire “Risposta Performativa” di Paola Romoli Venturi;
Performance “Equilibri” di Silvia Stucky;
Lettura di Michela Lardieri a seguire il pubblico sarà invitato a partecipare, assumendo un ruolo attivo, all’azione performativa collettiva “Il sentimento esposto” di e con Roberta Maola.

MACRO-Museo d’Arte Contemporanea di Roma – Via Nizza 138 / Ingresso libero
INFO: http://www.museomacro.it | http://www.robertamaola.com – Ufficio Stampa: 349 3821783

 

Cenni biografici
Allieva di Mario Di Girolamo in arte Gimar, Lindo Fiore e Rita Mele, Roberta Maola si è formata artisticamente presso l’Istituto Statale d’Arte “A. Valente” di Sora (Fr). Nel ’93 allarga i suoi interessi allo studio della psiche iscrivendosi alla Facoltà di Psicologia Università “La Sapienza” Roma. Ultimati gli studi lavora nel terzo settore parallelamente si occupa anche di grafica pubblicitaria per enti pubblici e no profit, sua è la campagna su territorio nazionale del Mese del Benessere Psicologico ed. 2010 organizzato dal S.I.P.A.P. Nel 2013 sceglie di dedicarsi totalmente alla sua ricerca artistica. Arte e psicologica come linguaggi idiosincratici tra di loro, opposte angolazioni di un unico processo esplorativo della medesima entità: i processi di pensiero, l’animo umano nella sua intima soggettività. Partecipa a diverse esposizioni personali e collettive collaborando insieme a molti nomi importanti del panorama artistico, le sue opere sono state pubblicate su cataloghi, siti e riviste specializzate, quotidiani e copertine di libri. Hanno scritto sul suo lavoro: Annarita Borrelli, Daniela Cocco, Giulia Del Papa, Massimiliano Ferraggina, Roberto Gramiccia, Araxi Ipekjian, Beatriz Leal Riesco, Michela Lardieri, Sarah Palermo, Alessandra Rinaldi, Raffaella Rinaldi, Andrea Ungheri. Mostre Personali: 2016, “Nessuno sogna, di ciò che non lo riguarda” (a cura di A. Ungheri, cat. con testi di S. Palermo, A. Ungheri, con il Patrocinio del I Mun. Comune di Roma), Polmone Pulsante, Roma; 2015, “Cinquantatrè anni sette mesi e undici giorni notti comprese” (a cura di G. Del Papa, cat. con testi di R. Rinaldi, G. Del Papa, con il Patrocinio del Comune di Casalvieri), Casa Comunale, Casalvieri (FR); 2015, “DISSONANZE” (a cura di Mauro Rubini, testo in catalogo di Beatriz Leal Riesco), Galleria Abc Art, Roma. Principali Mostre Collettive e Progetti Artistici: 2019, “Rete di Ricordi – Progetto per la memoria del museo Tucci” (organizzato e a cura di R. Melasecca interno 14 next, S. Stucky, M. Marinaccio), MACRO ASILO Museo d’Arte Contemporanea, Roma; 2019, MARATONA METROPOLIZ | LA CITTÀ METICCIA COMPIE 10 ANNI”, Installazione Apri la porta e accendi la luce, MACRO ASILO Museo d’Arte Contemporanea,, Roma; 2019, “Premio arts in Rome 2019 – mostra finalisti”, (organizzato e a cura di Artists Rome), Margutta Home, Roma; 2019, Copertina del libro “Divers-abilità: invenzioni per rendersi felici” (di L. Bizzarri, Edizioni ilmiolibro.it), Roma; 2018, “Una festa dell’Arte. Opera come Progetto” (a cura di A. Nassisi), Casa della Cultura, Caprarola; 2018, “Pesanti come coriandoli ” (cura e testo di R. Gramiccia), Castello dei Conti de Ceccano; 2018, “EMPATIA” (cura e testo di Maria Laura Perilli), Galleria Triphè, Roma; 2018, “Umanità Dispersa” (cura e testo di R. Gramiccia), Archivio Menna-Binga, Roma; 2018, “Arte da Macello”(organizzato e a cura di ignorarte.it cat. con testi di A. Borrelli), installazione permanente al MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove Metropoliz Città Metticcia, Roma; 2018, “Dimensione fragile” (a cura di P. Paesano, J. Pignatelli), Biblioteca Vallicelliana, Roma; 2017, “Natura Bianca” (a cura di D. Perego, V. Biasi), Interno 14, Roma; 2016, “…il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero” Centro di Cultura Omosessuale Mario Mieli, Roma; 2015, “Luce, degrado e speranze delle nostre città e della nostra società moderna” (a cura di T. Masoero), Sala dei Chierici – Biblioteca Civica Berio, Genova; 2014, “CONTESTUALMENTE” a cura di G. Morabito), Galleria Monogramma Arte Contemporanea, Roma; 2014, “CASA MIA CASA MIA” Sala del Carroccio – Campidoglio, Roma; 2013-14, “Espressioni” Eventi espositivi itineranti in 4 tappe: La Spezia, Taranto, Benevento, Napoli; 2013, “Comunicazione urgente” (organizzata a cura da Arte PerOGGI), Teatro dei Dioscuri – Complesso del Quirinale, Roma.

 

Ostegenesi imperfetta. Cure e coccole sicure…

nintchdbpict000347583652Il gioco e il momento dell’allattamento sono attività importantissime nello sviluppo psicomotorio, cognitivo ed affettivo di ogni bambino. Fra i 2 e i 4  mesi il bambino scopre di essere agente sulla realtà che lo circonda. Scopre cioè che può mettere in atto dei comportamenti intenzionali e che le persone che lo circondano reagiscono ai suoi comportamenti. Più avanti attraverso il gioco egli apprende i fondamenti di facoltà cognitive come il riconoscere le caratteristiche visive, sonore e tattili dei diversi oggetti, la costanza d’oggetto e il problem solving. Pertanto è importante non privare della possibilità di muoversi e giocare per paura che il bambino si faccia male, ma piuttosto usare delle piccole accortezze che gli consentano di farlo in maniera sicura.

Durante l’allattamento il bambino non si nutre solo a livello organico, ma anche a livello psicologico. Fa esperienza di sensazioni tattili di calore e morbidezza per il contatto con il corpo della madre, si specchia emotivamente nelle espressioni visive della madre e nel tono di voce. Se l’attività di allattamento si svolge in uno stato di serenità e senza fattori perturbanti il bambino si sente contenuto nelle sue sensazioni ed emozioni interiori, investito di amore ed altre emozioni positive. Tutto ciò favorisce lo sviluppo di un livello di autostima di base positivo, della capacità di autoregolare le proprie emozioni e la costruzione di modelli relazionali positivi: si sente amato e di essere importante e si costruisce una visione dell’Altro come affidabile e gratificante. E’ importante, pertanto, evitare che la madre sia in ansia o stia scomoda durante l’allattamento. Le emozioni e sensazioni negative sono veicolate dall’espressione del viso, dal tono di voce e dalla tensione muscolare, attraverso questi tre canali il bambino percepisce il disagio della madre e lo introietterà senza poter costruire un’immagine dell’Altro e di sé positiva. E’ inoltre fondamentale evitare traumi al bambino che producendo dolore trasformerebbero l’esperienza dell’allattamento in qualcosa di penoso e pieno di sofferenza.

Anche il momento della pulizia e della cura del bambino è importante. L’attività del cambio del pannolino deve essere un momento caratterizzato da serenità ed emozioni positive affinché il bambino non cresca con la sensazione che la soddisfazione dei suoi bisogni primari sia un’incombenza fastidiosa. Ricordiamo che secondo Maslow la soddisfazione dei bisogni primari è propedeutica alla soddisfazione dei bisogni e desideri di più alto livello, né consegue che il bambino, per crescere in maniera serena da un punto di vista psicologico ed affermarsi nella vita, ha bisogno di credere che i propri bisogni vengano soddisfatti tempestivamente e senza emozioni negative perturbanti.

Usare le accortezze raccomandate nel video di seguito riportato aiuta a garantire al bambino uno sviluppo fisico e psicologico quanto più sano possibile. In questo modo sarà meglio attrezzato ad affrontare la sua vita futura.

Traduzione del commento al video.

La fisioterapia in neonati e bambini piccoli con osteogenesi imperfetta è funzionale ad uno sviluppo positivo e ad evitare conseguenze negative. L’obiettivo è promuovere lo sviluppo motorio per evitare fratture e ridurre la comparsa di deformità. Non è facile predire quanto sarà efficace la riduzione delle deformità, ma l’intento è quello di renderle meno evidenti. E’ particolarmente importante curare il posizionamento dell’anca, la schiena e la forma della testa.

Di seguito alcuni esempi di come prendersi cura di un bambino fragile che ha bisogno di essere accudito e coccolato come ogni altro.

Avere il bambino sdraiato sullo stomaco a volte fornisce un posizionamento alternativo e evita l’appiattimento della testa. Inoltre stimola i muscoli posteriori e fornisce un buon punto di partenza per lo sviluppo delle abilità motorie.

Le braccia del bambino non dovrebbero essere posizionate sotto il suo corpo. Inoltre ha bisogno di rinforzare i suoi arti in modo che possa sollevarsi. Per bambini con OI severa sdraiarsi sulla pancia è impegnativo e necessita una particolare attenzione. Quando girate i bambino sorreggetelo. Aprite bene le vostre mani e le vostre braccia. Fate movimenti lenti, non lo scuotete e non lo tirate.

Posizionate il bambino su un cuscino morbido o un piccolo comforter che lo avvolga permettendogli più facilmente di avere maggiore stabilità. Potete costruire un bordo intorno al bambino usando un asciugamano o una coperta. Ciò dà al bambino la capacità di usare le braccia e le gambe più liberamente e in maniera sicura.

Stimolate il bambino posizionando un giocattolo sopra la sua testa in modo da incoraggiarlo a raggiungerlo. Provate a posizionare il bambino sul suo fianco facendo attenzione a non mettere troppa pressione sulle braccia a causa del pavimento duro. Questo permette al bambino di provare un’altra posizione e altre possibilità di movimento cosa che è vantaggiosa per le anche e per la testa.

Nel sollevare il bambino state attenti ad allargare bene le vostre mani allo scopo di massimizzare la superficie di supporto. Potreste portare il bambino con un cuscino se sentite che le vostre mani non forniscono abbastanza supporto. Portate sempre il bambino vicino al vostro corpo sia per supportarlo che per farlo stare comodo.

Usare un sedile saltellante renderà l’alimentazione più facile all’inizio. Provate a scegliere una seduta senza bordi duri e con un buon supporto alla schiena. Una superficie dura dietro la schiena del bambino è raccomandata in quanto una superficie di semplice stoffa avrà un effetto amaca causando il collassamento della schiena. È anche importante evitare che le gambe cadano in una posizione a rana. Supportate le gambe sostenendo le cosce. Prevenite l’eccessiva rotazione verso l’esterno del femore che per evitare contratture muscolari. Ciò migliorerà lo sviluppo delle sue abilità motorie.

Il momento del cambio è una grande arena di stimoli in quanto dà la possibilità di muoversi senza vestiti. Se usate un fasciatoio con bordi duri assicuratevi che ci sia abbastanza spazio nel fasciatoio per far in modo che il bambino possa muoversi in maniera sicura. Muovendo le braccia e sgambettando il bambino può urtare bordi duri e procurarsi fratture. Potrebbe essere un buona idea posizionare sul fasciatoio un morbido cuscino. Esso inoltre supporterà e stabilizzerà la schiena.

Essere portato sul suo stomaco non è normalmente una buona posizione per bambini con OI. Ad ogni modo fornirà stimolazione alla parte posteriore del corpo, le braccia e le gambe. Mentre, posizionandolo sul vostro petto mentre si è sdraiati all’indietro fornisce uno spazio sicuro per lui per esercitare i suoi muscoli posteriori.

Nell’allattamento usare un cuscino a mezza luna permette al bambino di essere supportato bene, inoltre le braccia e le gambe non verranno schiacciate dal corpo della madre. Il cuscino a mezza luna inoltre permette alla madre di rilassare le spalle durante l’allattamento. Se allattate su una tavola posizionate il bambino su una superficie stabile. Durante il primo mese di vita posizionatelo sul grembo in modo da fornire supporto e permettere al bambino di stabilire un contatto visivo.

Riferimenti:

Una risata seppellirà i cyber-falliti

Purtroppo spesso le persone con disabilità, piuttosto che lottare per ottenere ciò che desiderano, si aspettano che gli altri concedano loro il permesso di realizzare i propri obiettivi. Ciò fa sì che ci sarà sempre qualcuno che si arrogherà il diritto di pontificare su ciò che ci è concesso e ciò che non lo è, su ciò che è consono per un disabile e ciò che non lo è…

C’è stato un tempo in cui la magra consolazione, l’ultima spiaggia dei falliti, cioè di coloro che preferiscono crogiolarsi nell’idea che c’è chi sta peggio piuttosto che fare qualcosa di positivo per loro stessi, erano proprio i disabili i quali stavano buoni e zitti nei loro recinti esistenziali, nella triste e sconsolata consapevolezza del fatto che, in quanto handicappati, a questo giro dovevano semplicemente passare e sperare nella gioia eterna del paradiso.

Oggi giorno, invece, ti si presentano questi disabiloni da battaglia come Annalisa Minetti (ma anche tanti altri) che prendono il toro per le corna e lo sbattono contro il muro. Voce potente che spacca i muri, vince Sanremo nel 2007, poi partecipa alle gare paralimpiche di atletica vincendo qua e là qualche medaglia e fissando qualche record mondiale per categoria, si sposa ben 2 volte!!! e fa ben 2 figli, nel frattempo si iscrive all’università e supera esami.

E allora a me, francamente, viene da provare tenerezza e un po’ di pena per tutti coloro  (sempre una minoranza c’è da dirlo) che non possono neanche avere il conforto di pensare che almeno i disabili stanno peggio di loro. Posso immaginare il loro fegato contorcersi e comprendo (ma non lo giustifico sia chiaro!) il livore con cui la biasimano. Nel frattempo rido e penso che magari chi stigmatizza il suo aver messo al mondo figli che non potrà mai vedere ha la vista, ma i propri figli non li guarda mai.

Penso che in tutti questi anni la Minetti, di persone che blateravano su ciò avrebbe o non avrebbe potuto fare ne avrà incontrate tante, ma saggiamente ha deciso di impegnare le proprie energie per fare ciò che l’appassiona, per migliorarsi e ottenere successi, piuttosto che sprecarle nell’impresa impossibile di convincerle che avrebbe potuto ottenere i risultati che ha ottenuto.

E mentre molti si affrettano a soccorrerla con la loro indignazione verso alcuni commenti meschini, io la immagino ridere in faccia a questi miserandi le cui unghie stridono sugli specchi sui quali tentano invano di arrampicarsi riuscendo, peraltro, solo a torturare la grammatica: “Credo che avrà una stregua di persone che l’aiutano”. Ok magari qualcuno che l’aiuta ce l’avrà pure, ma talento, impegno, determinazione e spirito di sacrificio non te li può dare nessuno. E quindi l’alibi che gli altri riescono solo perché sono più ricchi, più fortunati, più aiutati (ecc.) non regge.

Nella vita c’è sempre qualcuno che ne ha più di te, che è più intelligente, più forte, più resistente, più determinato… Accettarlo infonde una grande serenità. Soprattutto ci predispone a rimboccarci le maniche e migliorare la nostra vita.  Il più delle volte, invece, si preferisce dare fondo all’invidia e alle più basse insinuazioni per evitare di fare i conti con i propri limiti.

Non è un caso che siano quasi sempre le donne ad essere vessate, discriminate e cyber-bullizzate: talentuose, multi-tasking e capaci di sopportare difficoltà e sofferenze estreme, sono portatrici inconsapevoli di una manifesta superiorità… e per questo sono fatalmente oggetto di tanto odio.

Il cambiamento è una questione di fiducia

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Un’accurata analisi della domanda 

A volte i pazienti non vengono in seduta per cambiare, ma solo per confidarsi con qualcuno su argomenti che non vogliono o non possono affrontare all’esterno, per solitudine o per avere qualcuno con cui sfogarsi. Questo aspetto oltre a dover essere chiaro allo psicoterapeuta è importante che venga esplicitato e il paziente se ne renda conto e se ne prenda la responsabilità.

Capire su cosa si vuole attuare il cambiamento e fissare obiettivi concreti e definibili.

Chi intraprende un percorso, il più delle volte, intende eliminare dei sintomi (ansia, depressione, insonnia, disturbi dell’alimentazione, ecc.) ritenendo che la semplice evacuazione di vissuti possa essere una catarsi sufficiente alla rimozione delle problematiche. In realtà il cambiamento richiede un po’ più di impegno.

Alcuni dei compiti che devono svolgere insieme terapeuta e paziente sono i seguenti:

  • rievocare questioni dolorose: non è sufficiente parlare dei sintomi o di questioni che hanno un ruolo marginale nell’economia esistenziale del paziente. È necessario trattare le questioni che hanno un ruolo centrale.
  • prendere contatto con le emozioni: non è sufficiente parlare dei vissuti e fare una rassegna delle problematiche. A volte i pazienti parlano velocemente di aspetti anche molto dolorosi con distacco emotivo. Anche queste sono forme di resistenza in quanto con queste modalità di espressione si blocca l’accesso delle emozioni alla coscienza, ma il vero potere del cambiamento sta nella forza delle emozioni: la chimica del cervello, le tracce mnestiche e le memorie procedurali che fanno da sostrato biologico ai copioni comportamentali, si modificano solo quando la parte più antica del cervello, quella implicata nelle emozioni, viene attivata. Il pensiero, l’attività della neocorteccia, è solo ciò che orienta e fa capire quali sono i nodi da sciogliere.
  • cambiare gli stili di vita: molto spesso i sintomi di ansia o i disturbi dell’umore sono causati da stili di vita molto stressanti, dal frequentare persone negative fonte di forte stress emotivo. In altri casi l’assunzione di sostanze o cattive abitudini alimentari possono aggravare i sintomi psicologici. Tutto ciò implica un cambiamento degli stili di vita per ripristinare il benessere psicologico. Ciò deve essere assunto responsabilmente dal cliente affinché possa collaborare ad un percorso che conduca verso la modifica di stili di vita disfunzionali.

La resistenza sta al cambiamento come l’aria sta agli uccelli: rallenta il loro volo e al tempo stesso lo rende possibile

Sembra un paradosso, ma non lo è: se i nostri cieli fossero privi di atmosfera il volo sarebbe impossibile. Così se i pazienti non ponessero alcuna resistenza al cambiamento sarebbero pura argilla nelle mani del terapeuta da plasmare a proprio piacimento, con grande gratificazione narcisistica di quest’ultimo. Questi cambiamenti tanto sono rapidi tanto sono instabili. La resistenza non è altro che la manifestazione fenomenologica della tendenza degli organismi a mantenere la stabilità. Così un certo livello di resistenza al cambiamento è segno di un senso del Sé coeso e stabile: il paziente conosce se stesso, sa cosa è familiare e tende a mantenerlo. L’assenza della resistenza o anche la sua inconsistenza sarebbe solo il segnale di una personalità poco definita che subisce le suggestioni delle altre persone, ma non cambia in funzione di un processo di consapevolizzazione e di scelta di applicare nuove modalità relazionali. Allo stesso modo l’eccesso di resistenza consente al terapeuta di individuare gli aspetti più problematici ed aiutare il paziente ad indirizzarlo verso di essi.

La resistenza è sempre intersoggettiva

Ogni psicologo e psicoterapeuta deve tener conto anche del proprio controtransfert e di conseguenza delle proprie resistenze ad affrontare tematiche molto dolorose per il paziente o che hanno attinenza al presente e alla storia del terapeuta. Esse si possono manifestare con la collusione da parte di quest’ultimo verso il paziente nel non affrontare completamente certe tematiche oppure anche nel sorvolare su di esse. Altre volte la resistenza può essere agita con comportamenti che interrompono l’espressione emotiva.

La resistenza si nutre di pregiudizi e pensieri irrazionali

“Ce la devo fare da solo”, “Ho paura di diventare dipendente”, “Quanto tempo ancora dovrò venire in terapia?”, “Non ho soldi da buttare”. Tutte frasi che esemplificano i pensieri irrazionali e ingiustificati spesso correlati all’idea di affrontare un percorso di psicoterapia. Evidenziarli e confutarli è parte integrante del lavoro terapeutico.

Bibliografia di approfondimento:
Cambiamento e Resistenza in Terapia –  L’aderenza veloce al trattamento Autori: Edoardo Giusti – Florinda Barbuto Casa Editrice: Sovera Data di pubblicazione: 2014. Clicca qui.

Clicca qui per scaricare le slide del seminario

Sclerosi Multipla pediatrica: la vita continua… anche in sedia a rotelle.

Tipicamente l’età d’esordio della Sclerosi multipla viene individuata tra i 15 e i 60 anni. Le recenti evidenze cliniche hanno portato alla luce, purtroppo, anche l’esistenza della forma pediatrica della malattia individuando la possibilità di esordio anche tra i 5 e i 15 anni. Per sensibilizzare su questo argomento l’AISM ha realizzato un video che raccoglie e sintetizza le storie di vita di ragazzi colpiti nell’infanzia o nell’adolescenza dalla patologia.

Nel video emergono questioni che si prestano ad una comprensione intuitiva, come lo shock e i sentimenti di rabbia  e disperazione che colpiscono questi giovani pazienti. Esso però ha portato alla luce anche aspetti a cui si riserva minore attenzione e che, soprattutto trattandosi di ragazzi e ragazze, hanno tuttavia un ruolo determinante nell’incrementare il livello di sofferenza e possono inficiare la compliance al trattamento.

Un fattore è sicuramente la risposta dell’ambiente familiare: è importante che i genitori  affrontino la malattia nella convinzione che nonostante essa, il/la figlio/a possa realizzare un presente e un futuro ricco di soddisfazioni personali in tutti gli ambiti della vita. Per far ciò è importante farsi sostenere psicologicamente per elaborare l’inevitabile sofferenza e adattarsi alle nuove situazioni che si susseguiranno nel decorso della malattia.

Una malattia pervasiva ed invasiva come la SM determina uno stravolgimento nell’area corporea e delle relazioni, fino a costringere chi ne è affetto a continue ridefinizioni della propria identità. E’ normale quindi attendersi che al momento della diagnosi e ad ogni ricaduta o peggioramento possano emergere sentimenti di disperazione e vissuti che “il mondo sia crollato” o che “ci si senta da buttare”. Ma se questi giovani lottatori sono in grado di superare ogni volta questi sentimenti è fondamentale che lo faccia anche chi sta loro vicino. Non si tratta di dissimulare la tristezza o la sofferenza, quanto di elaborarla al fine di costruire relazioni autentiche in cui entrano in gioco sia le difficoltà della malattia sia le risorse del paziente e che siano caratterizzate da tutte le emozioni connesse alla reale situazione del paziente e non a spettri evocati dall’anticipazione del decorso della malattia.

Per far in modo che i pazienti, mentre si impegnano nelle cure, continuino le loro attività di studio e di socializzazione, è importante fronteggiare i pregiudizi veicolati da chi non vive la realtà della malattia. Essi possono essere combattuti ad un livello macro-sociale, con campagne di sensibilizzazione, ma anche a livello individuale. I pazienti devono essere preparati a gestire le emozioni che sperimentano di fronte a comportamenti di rifiuto o  pregiudizio. Queste risposte dell’ambiente sociale non sono dettate da cattiveria o malafede. Per questo motivo è possibile smentire false credenze fornendo informazioni, ma anche consentire alle persone di superare le proprie paure semplicemente cimentandosi nelle attività quotidiane come tutti e mostrandosi per quello che si è, nelle difficoltà così come nella propria normalità. Al contrario, eccessive risposte emotive e il conseguente ritiro dalle attività di socializzazione non fanno che alimentare il dolore e la reattività emotiva, con il rischio che si vada a instaurare una vera e propria fobia sociale. In questo processo, è di fondamentale importanza il gruppo dei pari (altri pazienti con SM della stessa fascia di età), ma esso deve fungere come una base sicura per i momenti in cui si sente il bisogno di essere consolati e compresi, non deve diventare l’orizzonte ultimo di tutti gli scambi di socializzazione. L’identificazione immediata funge da fattore di rinforzo molto potente, per questo bisogna stimolare l’apertura all’esterno e il superamento della zona di comfort.

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Infine, bisogna considerare che nella nostra cultura l’handicap è un tabù e ogni persona, ancorché disabile, può essere portatrice di pregiudizi. Essi hanno un peso fortissimo nell’economia intrapsichica di chi è al contempo portatore e destinatario di pensieri negativi e svalutanti. Per questo motivo è necessario condurre una battaglia culturale anche sul “fronte interno”: la sedia a rotelle deve cessare di essere un tabù, il simbolo dell’ultima spiaggia da evitare a tutti i costi. Essa è semplicemente un ausilio, un mezzo che all’occorrenza può aiutare a continuare a vivere preservando livelli più o meno ampi di autonomia.

In ultima analisi la resilienza, cioè la capacità di fronteggiare le avversità, è fatta sì di grande forza di volontà e impegno, ma anche della capacità di adattarsi creativamente alle situazioni, tenendo in conto la possibilità di assumere stili di vita differenti. Chiudersi all’interno di un unico modello normativo riduce i gradi di libertà della persona e il suo livello di empowerment perché tante opzioni vengono neglette.

Riferimenti: https://www.msdmanuals.com/it-it/professionale/malattie-neurologiche/disturbi-demielinizzanti/sclerosi-multipla

Negli stereotipi di genere l’origine della violenza?

46766012_1907153352914173_4937881861071306752_nDiversi studi condotti nelle ultime due decadi rilevano come a parte rare eccezioni, l’abuso sessuale sia perpetrato esclusivamente da persone di genere maschile (Berliner e Elliot, 1996; Klimartin, 1994). Inoltre, un rapporto del FBI del 1992, spiega come gli atti di violenza siano lo strumento privilegiato della dominazione maschile sul genere femminile.

Alcuni, a partire da questa incidenza nettamente superiore di atti di abuso da parte degli uomini, hanno ipotizzato un’influenza diretta delle caratteristiche biologiche di quest’ultimi, teorizzando un rapporto di causa ed effetto tra caratteristiche biologiche e comportamento violento (Barash, 1979).

Altri invece, nel più recente passato, hanno sottolineato il ruolo dell’ambiente e della socializzazione, nel determinare il comportamento violento delle persone, pur riconoscendo l’influenza del genoma  (Fausto-Sterling, 1985).

D’altra parte, l’affinarsi delle metodologie di ricerca in neurofisiologia e in neuroanatomia hanno evidenziato l’influenza dell’ambiente sui processi neurofisiologici e sulla stessa struttura neuroanatomica (McEwan e Mendelson, 1993). Tutto ciò rimanda ad un superamento dell’atavica scissione tra mente e corpo, tra genoma e ambiente.

Ogni forma di abuso sessuale ha una sua tipica spiegazione, così come ogni singolo molestatore ha una sua personale motivazione. D’altra parte la netta prevalenza di maschi molestatori rispetto alle poche donne ree di commettere abusi su minori, non può essere ignorata: è necessario rintracciare un denominatore comune, una caratteristica diffusa più fra gli uomini che fra le donne che sia correlata con gli atti di abuso e prevaricazione in generale (Lisak, 1994).

Questo denominatore comune potrebbe essere, a giudicare dagli esiti di diverse ricerche, una particolare configurazione dell’identità di genere che alcuni uomini si costruirebbero sotto l’influenza dell’educazione familiare, in età infantile, e all’interno del processo di socializzazione, in età pre-adolescente e adolescente. Tale configurazione consisterebbe in:

  • Una concezione stereotipata dei ruoli sessuali;
  • Un particolare atteggiamento verso le donne;
  • Ostilità verso le donne;
  • Credenze ipermascoline.

Queste caratteristiche fornirebbero una vera e propria sottostruttura motivazionale, per la violenza e l’abuso non solo verso le donne, ma anche verso i bambini (Lisak, 1994). La più rigorosa dimostrazione di questa ipotesi è stata proposta da Malamuth e collaboratori (Malamuth et al. 1991). Essi hanno dimostrato una netta correlazione fra la succitata sottostruttura motivazionale, sia con la partecipazione a gruppi delinquenziali, fortemente caratterizzati da una cultura ipermascolina (Malamuth et al., 1991), sia con l’uso della coercizione in ambito sessuale e non.

C’è dell’altro. Non è solo la concezione dei rapporti tra i sessi o la concezione della donna a determinare il comportamento abusante. David Lisak (Lisak, 1994) ritiene che elemento cruciale sia il percorso attraverso il quale, il bambino prima e il ragazzo successivamente socializza le emozioni.

Ci sono molte forme per incarnare la mascolinità, almeno una per ogni sotto cultura esistente all’interno di uno specifico ambito culturale (Brod, 1994; Gilmore, 1990). Il sesso biologico ci dice poco e niente riguardo al particolare modo che avrà il soggetto di vivere il suo genere, che sarà influenzato dalle scelte personali, dalle vicissitudini psicodinamiche, dalle influenze culturali ed economiche della cornice storico-geografica nella quale nasce (Kimmel, 1996).

Eppure è possibile riscontrare alcune caratteristiche comuni della mascolinità. Una di queste è la precarietà. Non solo la mascolinità è un’entità culturale che va costruita, ma è difficile affermarla e sostenerla. Non è un caso che come molti autori abbiano evidenziato che nelle diverse culture ci sono riti di passaggio dal ruolo di bambino a quello di essere mascolino (Gilmore, 1990; Webster, 1908). Ciò dimostrerebbe l’intrinseca precarietà di una caratteristica tutta culturale e tutt’altro che biologica. Nella cultura occidentale uno dei riti di passaggio è l’adempimento degli obblighi di leva (in Italia lo era fino a qualche tempo fa) in cui le matricole vengono spesso sottoposte a training di resistenza alla fatica e alla paura, nei quali la manifestazione di ansia e debolezza vengono sistematicamente stigmatizzata e repressa.

In uno studio condotto attraverso un’intervista non strutturata, autobiografica, ogni soggetto intervistato riportava uno o più momenti di vita in cui era stato umiliato per aver espresso emozioni ritenute dagli adulti del suo contesto familiare o dal gruppo dei pari, incompatibili con il suo essere maschio (Lisak, 1994). Quindi, sembrerebbe che la capacità di controllare le proprie emozioni sia cruciale per affermare la propria mascolinità (Levant, 1995). Diversi studi evidenziano che:

  • I maschi, rispetto alle femmine, ricevono molti meno indizi e rinforzi per imparare dalle loro emozioni, da genitori, badanti e insegnanti;
  • I maschi subiscono spesso umilianti punizioni per aver espresso le loro emozioni (Lisak, 1994).

L’esito di questa particolare educazione socio affettiva è il seguente:

  • Gli uomini esperiscono le loro emozioni meno intensamente;
  • I maschi sono meno capaci, rispetto alle donne di esprimere e identificare le emozioni;
  • I maschi sono meno empatici.

 

La mascolinizzazione e la sessualità.

Anche se la sessualità è una dimensione strettamente collegata alla nostra corporeità è ben lontana dall’essere un fatto solo biologico. Tanto meno è un fatto monolitico, al contrario assume tantissime forme. Implica sia aspetti intrapersonali che interpersonali; si manifesta con atti fisici e allo stesso tempo evoca emozioni intense;può essere la più edificante delle esperienze di relazione interpersonale oppure un evento penoso e doloroso.

Anche se la sessualità è necessaria alla sopravvivenza della specie, essa è intrinsecamente e culturalmente legata al genere.

Così, se precedentemente abbiamo illustrato che l’educazione socio-affettiva e socioemotiva dei maschi non consente l’espressione di intense emozioni, va da sé che negli uomini, sia compromessa anche la capacità di abbandonarsi alle emozioni intense evocate da un rapporto sessuale. In particolare, secondo Lisak, sarebbe compromessa la capacità di perdere il controllo di abbandonarsi alla normale confluenza che implica un rapporto sessuale. Secondo l’autore, le intense emozioni evocate dall’incontro sessuale, elicitano il ricordo delle esperienze coercitive e penose connesse alla manifestazione delle emozioni in età evolutiva.

Al fine di non rivivere queste penose esperienze e le emozioni correlate,  molti uomini tendono ad approcciare la sessualità in modo disconnesso dalle emozioni. Ma il rapporto sessuale è un’esperienza estremamente intima che implica la fusione dei confini psicologici e l’effettiva penetrazione dei confini fisici, corporei. Per tale motivo se il rapporto sessuale viene vissuto senza coinvolgimento emotivo da parte di uno dei due partner, può trasformarsi in un’esperienza spiacevole o addirittura dolorosa (Lisak, 1994). Quando l’incontro sessuale, non è mutuamente condiviso emotivamente, rischia di trasformarsi in una manipolazione, in una coercizione o in una vera e propria prevaricazione fisica. Un uomo, quanto più è distaccato emotivamente tanto più è probabile che si verifichi una qualche forma di abuso o sfruttamento sessuale.

C’è di più, in considerazione del fatto che le esperienze coercitive subite in concomitanza con l’espressione di emozioni incompatibili con una rigida concezione della mascolinità sono associate a rabbia per la punizione e l’umiliazione subita, le emozioni sperimentate in ambito sessuale vengono trasformate in rabbia e aggressività, che possono scaturire in abuso e violenza sessuale. Quest’ipotesi è corroborata da diverse evidenze empiriche (Moscher e Tomkins, 1988).

D’altra parte molti studi dimostrano come esiste una correlazione negativa tra empatia e aggressività: tanto più è presente la prima più è improbabile l’altra e viceversa (Miller e Eisenberg, 1988). L’empatia consiste nella capacità di assumere cognitivamente la prospettiva dell’altro e nel sentire dentro di sé emozioni inerenti le vicissitudini di chi abbiamo di fronte. Tali emozioni possono essere sia positive che negative: possiamo provare sia simpatia che “personal distress”, come lo definiscono gli autori: quindi di fronte ad una persona che sta male possiamo provare sia compassione e tenerezza, sia allarme e reazioni di difesa (Batson, Fultz, e Schoenrade, 1987). Evidenze empiriche dimostrano che un tale stato di identificazione conduce a condotte diverse e opposte, tutte comunque mirate all’eliminazione della fonte dello stato spiacevole dovuto all’osservazione della sofferenza altrui: dall’aiuto, all’evitamento, all’uso della forza per reprimere la manifestazione della sofferenza (Eisenberg, Fabes, Schaller, Carlo, Miller, 1991a).

In sintesi, l’educazione mascolinizzante biasima e stigmatizza l’espressione di emozioni. Il bambino vive ripetutamente, o anche in una sola traumatica esperienza, emozioni di umiliazione, vergogna, rabbia ogni volta che manifesta emozioni di paura, tenerezza, compassione, ecc. In età adulta ogni volta che le relazioni interpersonali evocano queste emozioni, vengono colti da una forte ansia perché si riaffaccia il ricordo delle umiliazioni subite in età infantile; per diminuire questo stato di angoscia trasformano l’ansia in rabbia che di per sé  diminuisce l’ansia e che spesso si esprime in condotte lesive della fonte delle emozioni che hanno innestato il processo (Mosher, e Tomkins, 1988). Probabilmente questo processo è responsabile di molti comportamenti antisociali messi in atto in età infantile e adulta, da soggetti abusati (Klimes, Dougan e Kistener, 11990; Main e George, 1985). Un altro studio (Gold et al., 1992) ha evidenziato che esiste una correlazione positiva tra personalità ipermascolina e la tendenza a dare risposte rabbiose quando il bambino piange perchè ha bisogno di qualcosa.

Infine, altri due studi dimostrano che:

  • Il comportamento abusante sembra essere provocato dal pianto del bambino (Zeskind e Shingler, 1991);
  • gli abusanti hanno una reazione fisiologica più forte (aumento del battito cardiaco) quando un bambino o una bambina piangono e si lamentano (Frodi e Lomb, 1980).

L’empatia sembra essere correlata positivamente con la capacità delle persone di regolare ed esprimere il proprio malessere (Lenrow, 1965) e a sua volta questa capacità è correlata positivamente con la capacità della madre di rispondere adeguatamente al malessere del bambino (Bryant, 1987).

Abuso infantile e socializzazione  dell’identità maschile.

Diverse ricerche hanno evidenziato che se da una parte è vero che la maggior parte degli uomini abusati in età infantile non compie abusi in età adulta, dall’altra è altrettanto vero che la stragrande maggioranza degli uomini che compiono abusi, e in particolare abusi sessuali, hanno subito molestie e violenze in età infantile.

Secondo Lisak (Lisak, 1994) quello che porta gli uomini a diventare abusanti è il seguente: essi vengono cresciuti nel paradosso di dover subire maltrattamenti e provare emozioni intense e negative (paura, dolore, vulnerabilità, ecc.) e, allo stesso tempo, in nome di un’educazione mascolinizzante, essere obbligati a non esprimere queste emozioni, pena altre violenze e abusi. In età adulta questi uomini si sentono alienati, marchiati e ogni rapporto interpersonale genera sofferenza (Lisak, 1994). Esistono due modi sostanzialmente di uscire da  questo paradosso:

  • Rivedere la propria rigida concezione della mascolinità e così, permettersi l’espressione di tutte quelle emozioni non consone per un uomo; questa è la strategia scelta dagli uomini che hanno subito gli abusi, ma che non sono diventati molestatori a loro volta;
  • Abbracciare in toto una concezione ipermascolina dell’essere uomini e reprimere tutte le emozioni trasformandole in rabbia, aggressività, violenza; questa è la scelta di chi diventerà a sua volta molestatore.

Chi sceglie di non perpetrare gli abusi a sua volta pagherà il prezzo di sviluppare la Sindrome da Stress Post-Traumatico (Lisak, Miller e Conklin, 1996). L’acting-out è la via di sfogo, alternativa ai sintomi, della sofferenza provocata dagli abusi.

Hunter e Kilstrom (Hunter e Kilstrom, 1979) hanno rilevato una correlazione positiva tra alessitimia e tendenza a maltrattare i figli. Un altro studio, condotto su bambini abusati e sfruttati nell’industria pornografica, ha evidenziato che quelli che avevano adottato una scelta di non affrontare i ricordi degli abusi:

  • Minimizzavano l’accaduto;
  • Tendevano ad atti antisociali;
  • Mostravano una sorta di identificazione con l’ambiente.

Altri autori hanno concluso che i ragazzi abusati  inseriti nel programma di  trattamento, non potendo sostenere la paura, inconsciamente la inducevano negli altri al fine di vederla “rappresentata” in un contenitore altro da loro senza doverla esperire direttamente.

In conclusione, permettere un’espressione, della paura e delle altre emozioni, consente di diminuire lo stato di stress e la tendenza alla conversione in rabbia, riducendo il rischio che il soggetto abusato diventi a sua volta un molestatore.

 

Relazione operatori con utenti disabili e anziani

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La comunicazione con l’anziano ed il disabile: saper comprendere esigenze e difficoltà dell’assistito.

Le tecniche generali per comunicare efficacemente sono le seguenti: Evitare di utilizzare le cosiddette barriere alla comunicazione:

Valutazione: bisogna evitare di esprimere giudizi di valore o sul comportamento della persona assistita: “Sei cattivo”, “Sei stupido”. Anche esprimere giudizi positivi può risultare manipolatorio: dire “Sei buono” può indurre la persona assistita a comportarsi in maniera compiacente per ricevere l’apprezzamento. Anche dire che un comportamento è sbagliato senza cercare di capire i motivi per i quali la persona lo mette in atto determina conflitto, svalutazione e comunque porta la persona a ripetere il comportamento o addirittura amplificarlo. Se il comportamento ha delle conseguenze negative, pratiche o relazionali, è bene esprimerle per fare un bilancio dei pro e dei contro al fine di trovare una mediazione: ad es. con una persona anziana “Capisco che hai l’abitudine di scendere da solo le scale, ma sarebbe meglio mi chiamassi così posso aiutarti ed evitare che tu possa cadere”

Indagine: in una relazione con una persona con disabilità o anziana è naturale che ci sia la necessità di porre domande per acquisire informazioni. Tuttavia, queste richieste devono essere poste in maniera non indagatoria tenendo presente che la persona assistita ha comunque sempre il diritto alla propria privacy e al mantenimento di una sfera privata. Per acquisire informazioni è possibile porre domande aperte: “Come ti senti oggi?”, “Cosa vorresti fare questa mattina?”, “Cosa ti piacerebbe mangiare?”. Evitare domande del tipo: “Ti senti male?”, “Vuoi andare a fare una passeggiata?”, “Vuoi la minestra?”. Tutte queste domande convogliano l’attenzione su qualcosa di specifico scoraggiando l’espressione di altri desideri o stati d’animo. Ciò implica la necessità di fare altre domande. È fondamentale costruire un rapporto di fiducia e dare la possibilità di esprimere tutto ciò che l’utente desidera. È necessario dare il tempo alla persona di riflettere ed esprimersi. Persone con handicap o anziane possono avere tempi di reazione e di decisione più rallentati.

Sostegno: molto spesso le persone anziane o disabili vivono momenti di profondo sconforto, rabbia o paura a causa di una condizione alla quale non c’è possibilità di miglioramento radicale. Bisogna sempre evitare di minimizzare le problematiche o di riempire i silenzi con frasi di circostanza: “Vedrai che si sistemerà tutto!”, “Dai non è un
dramma”, “Fatti coraggio”. Il silenzio e la presenza empatica caratterizzato da un atteggiamento attento e disponibile è la postura più adatta in situazioni come queste. Rogers diceva che l’empatia è la capacità di comprendere la paura, la rabbia o la tristezza dell’altro senza aggiungere la propria paura, la propria rabbia e la propria tristezza. Ciò implica la necessità di conoscere le proprie emozioni nella relazione e saperle gestire.

Interpretazione: nella comunicazione è sempre bene evitare di attribuire significati ad un comportamento o a quello che ci viene detto, diverso da quello esplicito; andare alla ricerca di significati ulteriori il più delle volte ci porta fuori strada, ad attribuire significati negativi e, di conseguenza, a sfiducia e conflitto nella relazione. Ad esempio, pensare che una persona con disabilità faccia cadere più volte una cosa per farci un dispetto è una tipica interpretazione, infondata e fuorviante, che determinerà nell’operatore rabbia e conflittualità. Nel caso ci sia il dubbio che una frase o un comportamento sia portatore di un significato implicito è meglio esprimere questo dubbio e parlarne in modo da verificare quest’ipotesi e parlare apertamente. Non bisogna dare per scontato di conoscere ciò che pensa l’altra persona.

Usare la tecnica della riformulazione e delle domande aperte: per migliorare la comunicazione è bene ripetere ciò che la persona con disabilità o l’anziano hanno detto, soprattutto quando ci si trova in presenza di problemi di linguaggio. Ciò permette di verificare l’esatta comprensione di ciò che è stato detto e restituisce alla persona la sensazione di essere ascoltata. Oltre alla riformulazione si possono usare le domande aperte che consentono alla persona di esprimere ciò che vuole liberamente, senza entrare troppo nello specifico o in cose che non vuole esprimere.

La Comunicazione Non Verbale: buona parte della comunicazione passa attraverso l’espressione del viso, i gesti, la postura, il tono di voce. Bisogna sempre tenere presenti questi segnali in quanto danno significato alle parole e ci permettono di sintonizzarci sullo stato d’animo altrui. È bene tenere presente che la comunicazione non verbale “tradisce” i nostri pensieri e stati d’animo quindi è sempre importante evitare di dissimulare in quanto è estremamente difficile e anche se la persona non se ne rende conto, percepisce in qualche modo che chi lo sta aiutando non è autentico e ciò mina la
fiducia nel rapporto di assistenza che è invece fondamentale. Ovviamente in caso di patologie neurologiche il non verbale può essere indice di stati d’animo interiori, quanto di deficit del controllo motorio di conseguenza bisogna saper distinguere i due casi differenti (ad esempio tremore di una mano per forte ansia o per principio di Parkinson).

Messaggio-Io: dato che non si possono dissimulare emozioni negative e allo stesso tempo non è possibile agirle in un rapporto di assistenza (non si può alzare la voce se si è arrabbiati o mettersi a piangere mentre si lavora) è utile utilizzare il Messaggio-Io. Generalmente, infatti, quando un comportamento dell’altro ci disturba usiamo espressioni come «Sei la solita disordinata», o «Sei egoista», «Sei tu che mi fai stare male», «Sei inaffidabile», tutte comunicazioni che iniziano con “Tu sei” e danno all’altro un’etichetta che interessa la persona nella sua totalità. Spesso ci aggiungiamo termini come “sempre” e “mai” che contribuiscono a dare un’etichetta generalizzata all’interlocutore, a cui l’altro è portato a ribattere. Si costruisce attraverso quattro passaggi: Quando tu…(e si descrive il comportamento che disturba, in modo concreto, specifico e circostanziato) Io mi sento…(e si descrivono le proprie emozioni) Perché… (e si descrive il motivo delle proprie emozioni) E ti chiedo di…(e si descrive il comportamento desiderato)

Come approcciarsi alla persona con disabilità e/o all’anziano affetto da patologie invalidanti

Nella relazione di assistenza è ancora più importante relazionarsi all’utente con un atteggiamento:

EMPATICO: l’empatia è la capacità di comprendere i pensieri e le emozioni di una persona in un dato momento e rispetto ad una determinata situazione. L’empatia non è identificazione. Ogni persona ha il suo modo unico di reagire agli eventi non si può quindi attribuire all’altro come staremmo noi nella sua situazione. La comprensione
empatica si ottiene attraverso l’ascolto attivo applicando cioè la tecnica della riformulazione e le domande aperte, nonché l’ascolto degli elementi paraverbali del linguaggio. Oltre a ciò bisogna sviluppare la capacità di comprendere i segnali inviati tramite il non-verbale.

AUTENTICO: la fiducia in una relazione di assistenza è fondamentale ed imprescindibile. Il modo migliore per costruire un rapporto di fiducia è l’atteggiamento autentico che consiste sostanzialmente nell’essere sinceri e congruenti. Non significa essere spontanei a tutti i costi, dire la propria opinione anche quando non richiesta, bensì dire sempre la verità quando ci viene chiesto. NON BISOGNA DIRE TUTTO CIO’ CHE SI PENSA, TUTTAVIA BISOGNA PENSARE TUTTO CIO’ CHE SI DICE. Come detto la nostra mimica facciale i gesti e l’intonazione di voce tradiscono i nostri pensieri e le nostre emozioni, quindi la mancanza di congruenza il contenuto e l’atteggiamento viene sempre percepita da chi viene assistito anche se magari non se ne rende conto, ad un livello inconsapevole sente di non potersi fidare di chi lo assiste.

ASSERTIVO: la migliore qualità di un operatore è la costanza. Cioè riuscire a dare un buon livello di prestazione nei servizi che svolge per l’utente lungo tutto l’arco della giornata o del turno lavorativo. Inoltre, se il rapporto di assistenza dura per tanti anni si evita all’utente lo stress del cambiamento. Per durare tanti anni in una stessa situazione è necessario che l’assistente sappia tutelare la propria salute fisica e mentale, senza prevaricare le necessità e i diritti dell’utente. Per tale motivo è necessario avere un atteggiamento né passivo (subire tutto in modo compiacente anche a discapito proprio); né aggressivo (alzare la voce o le mani per condizionare il comportamento dell’assistito); né passivo-aggressivo (mostrarsi compiacenti per poi fare dispetti con i quali agire la rabbia repressa). L’assertività è la capacità di esprimere i propri bisogni e i propri diritti, le proprie sensazioni positive e negative, senza violare i diritti ed i limiti altrui.

Per essere assertivi bisogna essere capaci di:

  • Identificare ed esprimere le proprie sensazioni; • Definire e rispettare i limiti; • Comunicare ed ascoltare in modo aperto, diretto e congruente;
  • Avere la consapevolezza di avere tutti i diritti ai propri bisogni e necessità.

Quali diritti ha l’operatore?

  • Il diritto ai propri valori, pareri ed emozioni;
  • Il diritto di cambiare, modificare e sviluppare la propria vita senza arrecare un danno all’utente;
  • Il diritto a non doversi giustificare per le proprie sensazioni o comportamenti, tuttavia è importante saperle spiegare e trovare una mediazione.
  • Il diritto di vedere rispettati i propri bisogni e limiti;
  • Il diritto di dire “NO” quando una richiesta può ledere la salute fisica, mentale e morale ricercando una mediazione e una soluzione creativa insieme all’utente per conciliare i bisogni di entrambi;
  • Il diritto a chiedere aiuto e informazioni senza dover avere sensazioni negative di vergogna e di colpa;
  • Il diritto di prendersi il tempo e l’aiuto necessari a formulare le proprie idee e desideri prima di esprimerli;
  • Il diritto a fare errori;
  • Il diritto di cambiare idea o a volte anche a comportarsi illogicamente.
    Dire di “NO”: perché? E come?

Essere incapaci di dire “NO” ci mette nella condizione di dire “Sì” anche quando vorremmo dire “NO”; Dire “Sì” quando vorremmo dire “NO” mortifica la nostra capacità di controllare la nostra vita; ci spinge a prenderci più responsabilità di quelle che vorremmo; ci mette nella condizione di dover assolvere a più compiti di quelli che ci permettono i nostri limiti fisici, psicologici e intellettuali; ci fa accumulare stress con pesanti ripercussioni sulla salute fisica e mentale; Dire “ NO ” può essere molto difficile; le persone con bassa autostima molto spesso hanno anche una mancanza di assertività e pensano di doversi adattare a tutte le aspettative che gli altri hanno su di loro. A volte si sentono come vergognose, o colpevoli, nel dire di NO. Il fare le cose contro la propria volontà e possibilità non fa altro che farli sentire ancora più abusati e arrabbiati. Alcuni modi di dire “ NO”: “Non posso fare questa cosa adesso”; “Spiacente, ma NO”; “Abbi pazienza ma non posso proprio venire”; “Preferirei di NO”; “Questa cosa non la posso fare in questo modo perché mi crea questo problema, troviamo insieme un modo alternativo?”

Prendere decisioni corrette e congruenti per essere coerenti. Se qualcuno vi fa una richiesta avete il diritto di chiedere un po’ di tempo per pensarci. La decisione dovrebbe spettare a voi, ma alle volte è difficile riuscire a dire NO immediatamente. Potete provare ad usare un NO empatico e spiegare i motivi del rifiuto senza dare l’impressione di giustificarsi.

Gestire il conflitto. Vivere in un ambiente dove ci sono conflitti irrisolti è, a lungo andare, deleterio per tutti perché le energie vengono tutte assorbite dal conflitto è non c’è possibilità di progredire o di creare una condizione di benessere; si vive in una condizione di oppressione e divisione. D’altra parte, può esserci qualcuno nel sistema relazionale che pensa di trarre vantaggio da una permanente situazione di conflitto: è la classica strategia del dividi et impera. Una delle prime cose da fare nella gestione del conflitto è individuare se c’è qualcuno nel sistema relazionale (es.: famiglia) che cerca, consapevolmente o meno, di trarre vantaggio dalla situazione di conflitto e di svelare il suo copione. Una volta svelato questo gioco è più facile evitare di farsi coinvolgere in sterili discussioni. Altre volte i motivi del conflitto sono più genuini. Alcuni esempi possono essere le differenze negli obiettivi, nei valori, negli interessi; Incomprensioni; Bisogni non soddisfatti.

Cosa ci spinge a subire i conflitti?

  • La convinzione che le cose non possano cambiare;
  • La paura di incorrere in guai, se si cerca di mediare tra due persone in conflitto o di reagire all’aggressività altrui.
  • La scarsa autostima;
  • Il dubbio di essere l’unica persona a credere che ci sia qualcosa di sbagliato e a stare male;
  • La tendenza a delegare agli altri le responsabilità.

Accettazione del conflitto e empatia. Esiste una relazione biunivoca tra l’empatia e la capacità di riconoscere ed affrontare i conflitti: se non siamo disposti a riconoscere un conflitto, in tutta probabilità tenderemo ad ignorare i bisogni dell’altro (spesso il più debole) allo stesso tempo se non siamo in grado di comprendere i sentimenti e i bisogni altrui, difficilmente riusciremo a trovare una mediazione tra le parti in conflitto.

Strategie per risolvere i conflitti:

  • Identificare e definire il problema: per fare ciò bisogna innanzitutto esprimere ciò che si prova e si pensa in prima persona Vedi barriere comunicazione e Messaggio-Io;
  • Proporre differenti soluzioni: chiedete al vostro interlocutore di proporre una soluzione, nel frattempo elaborate delle vostre proposte e fate una lista di opzioni possibili;
  • Prendete una decisione comune: non cercate di persuadere la persona ad accettare la “vostra ” soluzione, inoltre definite in maniera chiara ed inequivocabile una modalità che possa essere congeniale ad entrambe le parti;
  • Attuate la decisione presa: dopo aver deciso il da farsi bisogna accordarsi su come farlo (CHI deve fare COSA e QUANDO); è bene che le responsabilità e i compiti siano divisi equamente;
  • Fate una valutazione della strategia impiegata: dopo aver intrapreso la pratica concordata fate, insieme al vostro interlocutore, una valutazione degli effetti di essa e rinegoziate, SEMPRE INSIEME, eventuali cambiamenti.
    I pensieri auto-distruttivi. Spesso siamo noi stessi la con-causa dei conflitti di cui siamo vittime e attori. Ciò avviene quando nella nostra mente prevalgono i pensieri negativi, quando pensiamo che siamo circondati da persone che vogliono deliberatamente farci del male. Quando ci rendiamo conto che queste idee ricorrono dentro di noi dobbiamo procedere con il cosiddetto reality testing spingendo gli altri ad esprimere le loro “reali” motivazioni.

RISERVATO: nell’assistere una persona anziana o disabile ci si trova a vivere pezzi della sua vita molto intimi: visite mediche, relazioni private con amici, conoscenti e familiari, riunioni di lavoro o situazioni legate alla sessualità. IN NESSUN MODO CIO’ CHE SI APPRENDE IN QUESTE SITUAZIONI DEVE ESSERE RIFERITO AD ALTRI. L’ASSISTENTE E’ TENUTO AL MASSIMO RISERBO DI TUTTO CIO’ CHE RIGUARDA LA SFERA PERSONALE DELL’UTENTE E CHE APPRENDE INCIDENTALMENTE. Inoltre, bisogna astenersi dal commentare o fare dello spirito riguardo questioni intime senza il permesso della persona stessa.

RISPETTOSO: il rispetto è fondamentale in qualsiasi relazione. Esso va inteso sia nel non avere comportamenti offensivi o prevaricatori nell’Io-Tu della relazione con l’utente, ma soprattutto in presenza di altre persone. Molto spesso gli altri tendono a relazionarsi con l’assistente anche quando la persona è perfettamente in grado di intendere e volere di relazionarsi e comunicare. L’ASSISTENTE NON DEVE MAI ASSECONDARE QUESTO ATTEGGIAMENTO E LASCIARE IL TEMPO ALLA PERSONA ASSISTITA DI RISPONDERE.

Desirée. Siamo tutti vittime della guerra all’integrazione.

downloadLo voglio dire subito così che gli haters razzistoidi di tutte le sigle si possano scatenare nel vomitare il loro odio farneticante senza dover mettere alla prova il loro analfabetismo funzionale: la responsabilità della tragica fine di Desirée e le atroci violenze subite (drogata e violentata da più uomini di origine africana e deceduta per overdose), sta tanto in capo a chi le ha commesse, quanto a chi si accanisce contro i modelli di integrazione come Riace o contro forme di convivenza civile, mentre tollera luoghi dove si concentrano degrado e attività criminose (peraltro più volte segnalate dagli abitanti del quartiere S. Lorenzo).

Si pensi allo sgombero dello stabile di Piazza indipendenza e allo smembramento della comunità eritrea che vi era insediata (estate 2017), o agli sfratti intimati alla Casa Internazionale delle Donne e al centro antiviolenza di Tor Bella Monaca, o ancora allo sgombero del centro di accoglienza di via Scorticabove e alla sentenza che ha condannato il Comune di Roma al risarcimento di 28 milioni di euro per non aver impedito l’occupazione della ex fabbrica Fiorucci di Tor Sapienza. Occupazione che ha trasformato uno stabile fatiscente, destinato a diventare teatro di attività illecite, nel Museo dell’Altro e dell’Altrove: inedita esperienza in cui convivono opere d’arte contemporanea e numerose famiglie di diverse etnie.

Tragedie come questa (così come quella di Pamela Mastropietro) sono una manna dal cielo per gli accaniti oppositori dell’integrazione e dell’interculturalismo. La loro drammaticità li rende il propellente emotivo per logiche razziste e politiche di deportazione e segregazione. Ma se le si vuole interpretare con il minimo di onestà intellettuale che serve a superare le categorie lombrosiane che associano la conformazione fisica alla natura criminale, non si può non riconoscere che la responsabilità della morte e dello stupro di Desirée non può essere imputata a uomini, donne e bambini innocenti che hanno in comune solo il colore della pelle o la provenienza geografica. Anzi, non c’è alcuna soluzione di continuità tra l’atroce destino della piccola Desirée, i femminicidi nelle famiglie italiane (1 ogni 3 giorni) e i drammi di chi viene perseguitato o scappa dalla guerra, di coloro che vengono torturati nelle prigioni libiche o schiavizzati nei campi di pomodori o sui marciapiedi. La matrice è la stessa: il dominio, la violenza e lo sfruttamento estremo che vede sia fra le vittime che fra i carnefici persone di tutte le etnie. Salvo dover riconoscere che i carnefici sono quasi sempre uomini.

Questa consapevolezza non è solo motivata dal rispetto dei diritti umani, ma anche dalla urgente necessità di rendere sicure le città e proteggere le persone. Uno Stato che profonde ingenti risorse in attività di ingegneria sociale caratterizzate in senso nazionalistico, non può impegnarsi adeguatamente per proteggere tutti/e. La sicurezza passa inevitabilmente per il potenziamento di servizi di accoglienza ed inclusione liberi dal giogo della corruzione e della speculazione. Al contrario, distogliere risorse dai servizi sociali, culturali e multiculturali per investire sempre di più in spese militari e nelle forze dell’ordine, significa scegliere consapevolmente di attuare una politica che prepara la guerra, la quale trova giustificazioni nel proliferare del degrado morale e nell’imbarbarimento psicologico. Una guerra che è dichiaratamente rivolta verso i più deboli ed emarginati ma che, nei suoi danni collaterali, può coinvolgere potenzialmente ciascuno di noi.

In questi giorni la comunità del quartiere S. Lorenzo (e non solo) si stringe straziata dalla consapevolezza di non essere riusciti a proteggere l’ennesima figlia dalla violenza efferata di uomini che vedono nelle donne solo corpi da sfruttare. L’auspicio è che il cordoglio diventi motore di una rinnovata partecipazione sociale per invertire questo pauroso vortice  di regressione psicologica e sociale.