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Si può essere felici pur avendo una disabilità? Quali sono gli ingredienti necessari per raggiungere una buona qualità della vita? Queste le domande a cui fondamentalmente risponde questo libro che esplora il complesso intreccio tra fattori biologici, psicologici e socio-culturali che determinano il benessere psicologico e l’auto-realizzazione. Obiettivo? Fornire spunti, a professionisti e non addetti ai lavori, per identificare le diverse prospettive e pianificare interventi che affrontino le problematiche a diversi livelli, valorizzando sempre l’unicità e il ruolo soggettivo della persona con disabilità, regista essa stessa dei supporti per l’inclusione sociale, piuttosto che oggetto passivo di atteggiamenti pregiudizievoli e assistenzialisti.
“Una visione diversa della disabilità: questo libro analizza psicologicamente le diverse criticità legate alla condizioni della disabilità con realismo e concretezza offrendo al contempo degli spunti di riflessione che permettono di trovare degli agganci di “resilienza”. Consigliato sia a chi vive e/o conosce la situazione di disabilità che a chi è semplicemente incuriosito da una visione realistica e concreta.”
“Un libro necessario, consigliato a chiunque viva, lavori o semplicemente voglia approcciarsi alla realtà della disabilità motorio-sensoriale. Testo completo e rigoroso, ma nel contempo scorrevole, appassionante e toccante. Mi resta la sensazione di un annullamento delle distanze, perché sia che siamo persone normodotate o con disabilità, vogliamo infine le medesime cose: autodeterminazione, rispetto, relazioni significative e gratificanti. Bellissimo testo.” E. M.
“Alla ricerca del tempo perduto” 2014 Matita su Carta di Roberta Maola
Siamo entrati nell’agognata e temuta Fase 2. Ovvio che la ripartenza delle attività produttive e sociali è fondamentale per evitare il crollo del sistema economico e il collasso psicologico e sociale. Tuttavia, deve essere ben chiaro a tutti che una nuova ondata di contagi avrebbe ripercussioni drammatiche innanzitutto a livello sanitario e in secondo luogo per le conseguenze di un nuovo prolungato lockdown.
Cosa fare dunque? Gli elementi individuati da chi dall’alto sta gestendo l’emergenza
(Governo, Protezione Civile, ISS, ecc.) sono: Dispositivi di Protezione Individuale, App Immuni, tamponi e test sierologici. Ok. Posto che il Governo riesca a dotarci di questi strumenti in tempo utile, le domande fondamentali sono due: questi strumenti sono davvero efficaci? E soprattutto: ognuno di noi avrà la volontà e la capacità di usarli al meglio?
E forse è questa la domanda che ci dovremmo porre tutti più seriamente e che ci riguarda più da vicino, in un’ottica che vede la nostra libertà come direttamente proporzionale al nostro senso di responsabilità. Perché al di là dei dubbi sull’efficacia dell’App Immuni e dei test sierologici, della disponibilità di mascherine in numero sufficiente o di accesso tempestivo ai tamponi, il più grande errore che le istituzioni e le persone possono fare è quello di pensare che la gestione dell’emergenza sanitaria sia un processo che possa passare sopra la testa di ogni singolo individuo, che possa, cioè, essere gestito solo tramite algoritmi, obblighi e ammortizzatori sociali, prescindendo dal contributo soggettivo di ognuno.
Nei prossimi mesi ci attende la sfida di riuscire ad integrare nella vita quotidiana, in maniera perdurante e costante, tutte le prassi di prevenzione del contagio. Anche in Fase 2 gli spostamenti e gli incontri con le altre persone dovranno continuare ad essere ridotti a quelli veramente importanti e dovranno essere condotti con la massima attenzione nell’usare i dispositivi di protezione individuale, nell’applicare le norme igieniche e nel rispettare il distanziamento. Per quanto odiose queste prassi possano essere, sono l’unico modo per evitare il perpetuarsi dei contagi visto che questo virus ha la subdola caratteristica di farsi ospitare senza produrre sintomi (o producendone aspecifici) nella stragrande maggioranza di casi.
Ognuno dovrebbe, pertanto, comportarsi come se fosse portatore di contagio e come se, anche il più stretto familiare, possa potenzialmente essere ospite del virus. Questa affermazione può sembrare esagerata. D’altro canto se si rispolverano e capitalizzano gli insegnamenti derivanti dalle campagne contro la diffusione dell’HIV, ci si rende conto come entrambi i virus debbano la loro “fortuna” a credenze erronee, come quella di pensare che colpiscono solo alcune categorie di persone, e a resistenze a mutare le abitudini nel modo di relazionarsi. Era il 1995 quando a noi studenti della Facoltà di Psicologia ci spiegavano come il preservativo fosse, a torto, considerato un elemento di separazione fra partner, mentre in realtà il suo utilizzo è un gesto d’amore che rinsalda il legame di coppia nell’assunzione di reciproca responsabilità per la salute dell’altro.
Oggi come allora siamo chiamati a frenare l’impulsività e a restituire intenzionalità alle nostre rel-azioni. Pensiamo che il distanziamento sociale ci ha privato del piacere di stare con gli altri, ma se vogliamo essere davvero onesti con noi stessi, il distanziamento sociale ci ha privato, il più delle volte, di “passatempi”, “rituali” e “giochi relazionali” ovvero di attività stereotipate, svuotate di significato e sentimento che spesso ci lasciavano insoddisfatti, se non addirittura ci facevano stare male.
Al contrario, la ricerca dell’intimità può avvenire anche senza contatto fisico e persino senza parole. Avviene quando ciò che diciamo è sincero, sentito e muove emozioni positive. Intimità è divertimento, incoraggiamento, vicinanza nell’ascolto. Quante volte riempiamo di parole i silenzi? Eppure essi sono lo spazio psicologico di cui l’altro necessita per maturare pensieri ed emozioni, il tempo che diamo a noi stessi per osservarne il viso, la gestualità, la postura.
Ricercare l’intimità ai tempi del coronavirus significa cogliere il sorriso negli occhi laddove la bocca è coperta dalla mascherina, percepire la forza e il movimento di una stretta di mani coperte dai guanti. Significa, in ultima analisi, valorizzare ciò che nella quarantena rimane, piuttosto che rimpiangere ciò che si è perso.
L’incontro è stato aperto con il racconto da parte degli autori che hanno illustrato come è nata l’idea di scrivere il testo sul fenomeno del Devotismo “Sesso e disabilità: un’attrazione segreta”. Sia per la dott.ssa Angeli che per il dott. De Risio sono state due esperienze dal forte impatto emotivo ad ispirare il progetto. Per la prima l’aver visitato la mostra Erotica Tour, svoltasi a Roma nel 1995, nell’ambito della quale c’erano anche stand dedicati alla pornografia che aveva per oggetto le persone disabili, le menomazioni e gli ausili. Dal canto suo il dott. De Risio ci racconta il suo incontro con i devotee citando un brano delle note degli autori riportate nel loro lavoro:
(…) da venti anni in quei luoghi preclusi ai più, i luoghi della pena che, nella nostra società segnano il confine ultimo tra chi “è nel giusto“ e chi “ha sbagliato”. In questa scatola di pietra ho raccolto gli ingredienti di quel complesso intreccio tra salute mentale, pulsione sessuale e disabilità. La storia di F., una storia apparentemente come tante, una vita ‘trasgressiva’ … una vita al limite, tra eccessi e profondi malesseri, di chi, come un funambolo, cammina sul confine ultimo, la zona d’ombra, tra il bene e il male. Dal contorno fumoso ed evanescente del suo dire, come in una ambientazione di una fumeria d’oppio lontana nel tempo, ecco prendere forma un racconto dai toni forti, tenuti in disparte, di sesso senza amore, di corpi senza movimento, di tendenze predatorie giocate sul piano della contrapposizione, di “registi” senza scrupoli, di fragili “attori”, di audaci “scenografie”, di avidi “mercanti”.
Un fenomeno, quello del devotismo quindi, che si è fatto movimento e business. Le persone devotee possono trovare un sociale di riferimento nelle associazioni che razionalizzano e giustificano questa devianza sessuale attraverso l’assunto che le persone con disabilità non verrebbero “amate” o desiderate da nessuno se non dai devotee. Solo costoro, infatti, avrebbero la capacità di vedere la bellezza che le persone normali non vedono. Negli States esiste l’associazione ASCOT-WORLD che nasce per fornire supporto a persone amputate e disabili, particolarmente veterani di guerra o vittime dell’11 settembre, al cui interno confluiscono molti devotee che, offrendo il loro aiuto pratico, hanno la possibilità di stare a contatto con persone disabili.
Le strategie dei devotee possono essere molto diverse a seconda dei contesti all’interno dei quali cercano persone da adescare: possono essere assolutamente espliciti rispetto alle caratteristiche di menomazione che la persona deve avere per soddisfare i loro desideri (vedi agenzie matrimoniali che ospitano anche persone con handicap) oppure possono assumere atteggiamenti estremamente sedutivi nei forum di persone con disabilità.
Purtroppo esiste una sorta di collusione anche da parte delle persone disabili che cercano nei devotee persone in grado di prestare loro attenzioni, che, ritengono, nessun altro darebbe loro. Attenzioni e supporto pratico per le quali ritengono di dover essere grate.
Partendo dalla convinzione che l’unica peculiarità che rende speciali e degni di attenzione è la disabilità, con tutto ciò che comporta dal punto di vista psicologico e sociale, si sarà portati a pensare che essa sia l’unica carta che può essere “giocata”. Non risulterà per ciò strano che il partner avrà una sorta di fissazione ossessiva e curiosità morbosa per i dettagli riguardanti la malattia, la disabilità, la deformità e la sofferenza.
Come detto i devotee (e purtroppo anche alcune persone disabili) razionalizzano questi atteggiamenti sostenendo che sono le uniche persone a vedere la bellezza “diversa”, in realtà essi hanno i medesimi canoni estetici delle persone normali, solo che provano un’eccitazione sessuale tanto più intensa quanto le caratteristiche fisiche di una persona si allontano dai normali canoni estetici. In altre parole più il corpo è strano e deformato più provano eccitazione.
Non esitano a fare commercio o traffico di immagini rubate dei momenti intimi della vita della persona disabile, particolarmente quelli relativi alla gestione del proprio corpo e delle parti del corpo connesse alla disabilità. L’attenzione morbosa per la menomazione fa loro perdere completamente di vista la persona e la sua sensibilità: non mostrano alcun rispetto per il pudore con cui di solito vengono trattate le parti del corpo più critiche. Le pratiche sessuali sono strettamente connesse ad esse, senza alcun riguardo per il piacere della persona disabile.
Il pericolo di traumi psicologici derivanti dall’inganno seduttivo, dalle umiliazioni a cui possono essere sottoposti a causa dell’enfasi riservata alla disabilità, nonché il rischio di abuso e sfruttamento sessuale impongono con urgenza di tracciare criteri e strumenti per individuare preventivamente le persone che hanno atteggiamenti morbosi verso la disabilità.
Alcune caratteristiche comuni sono individuabili, come detto, nell’enfasi eccessiva e morbosa per i particolari intimi della malattia, atteggiamenti di ammirazione eccessiva rispetto alla condizione di sofferenza, il collezionare immagini o materiale illustrativo inerente ausili e protesi, nonché la partecipazione ad happening relativi alla disabilità con una frequenza non richiesta dalla professione. Difficile, però, individuarli anche perché spesso svolgono lavori attinenti proprio per avere una maggiore facilità di contatto e relazione. Da questo punto di vista bisogna tener presente il rischio relativo all’assistenza sessuale che può risultare un ambito nel quale devotee possono essere legittimati e facilitati al massimo ad accedere alla sfera sessuale.
In chiave preventiva è sicuramente necessario intervenire anche sulle persone con disabilità informando sul fenomeno, ma anche lavorando sul potenziamento dell’autostima e delle capacità relazionali al fine di incrementare il livello di inclusione. Una persona che ha una rete ampia di persone che le vogliono bene e che la stimano, avrà maggiori probabilità di raggiungere il proprio benessere psicosessuale senza dover accettare surrogati che non la soddisfano o peggio la fanno stare male.
È necessario, infine, agevolare la modificazione di schemi relazionali basati su dinamiche di potere e dipendenza, sviluppando la maturità emotiva necessaria ad accettare rapporti alla pari caratterizzati da rispetto, piacere reciproco e… rischio di separazione come capita alle persone che non hanno disabilità.
In cosa consiste? Presentazione del libro “Sesso e disabilità: un’attrazione segreta” di Alfredo De Risio e Stefania Angeli (psicologi – psicoterapeuti) e dibattito a seguire.
Quali argomenti?
Devotismo e attrazione feticistica verso la disabilità;
Le diverse declinazioni del devotismo;
Devotismo: devianza sessuale o perversione?
Devotismo sofferenza e abuso;
Esiste il vero amore per le persone con disabilità? Come distinguere un’attrazione genuina dalla perversione.
Destinatari: il laboratorio è rivolto a tutti coloro che sono interessati all’argomento per motivi personali o professionali.
Costi:
20 euro per iscrizione singola;
15 euro a testa doppia iscrizione;
10 euro a testa per gruppi di tre o più iscritti.
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA SCRIVENDO A info@bizzarrilelio.it O 3478468667. MAX 10 PARTECIPANTI.
Ubicazione: Romanina Roma (l’indirizzo preciso verrà fornito al momento della prenotazione)
Ho sempre pensato, guardando il panorama cinematografico, che fare un film sulla disabilità è estremamente difficile. Il cinema francese da qualche anno sta dimostrando di avere la giusta sensibilità per realizzare pellicole positive, ironiche e profonde. Dopo “Quasi amici – Intouchables” del 2011, la “Famiglia Bélier” si propone come un piccolo capolavoro di dissacrante ironia e raffinata conoscenza della realtà della disabilità e della vita.
Racconta la storia di un’adolescente, unica udente in una famiglia di non udenti (padre, madre e fratello), che affronta il suo percorso di autonomia sulla spinta dell’amore e della passione per il canto. Nella prospettiva rovesciata proposta dagli sceneggiatori, l’elemento di diversità non è l’handicap, ma il dono di una voce sublime: Paula, per affermare se stessa dovrà affrontare il conflitto di lealtà verso i propri familiari che non potranno mai apprezzare fino in fondo le sue doti.
Il risultato è una sintesi armoniosa, divertente ed emozionante in cui il tema centrale è arricchito da altre tematiche quali la sessualità, la genitorialità nella diversità, il ruolo di caregiver di una giovane figlia, l’approccio narcisistico alla disabilità che ripropone a parti rovesciate la logica del “Noi e voi” e della “superiorità/inferiorità”. E ancora, l’importanza dell’impegno che fa la differenza tra l’attualizzare il talento e il disperderlo in una mediocre sopravvivenza.
Intervento al convegno per il 10° anniversario della fondazione dell’Associazione Italiana Sindrome di Williams (AISW)
Dall’esame della letteratura internazionale inerente lo sviluppo psicorelazionale e socio-emotivo delle persone con sindrome di Williams è possibile rilevare come diversi studiosi nel corso degli anni siano giunti a conclusioni estremamente differenti, per non dire opposte.
Gli studi storici sul profilo socio-emotivo delle persone con SW evidenziano una grande capacità empatica e una spiccata tensione verso l’altro (Dickens e Rosner, 1999), particolarmente le persone estranee (Doyle et al., 2004).
In altre parole sarebbe tipico della persona con SW mostrare attenzione verso gli stati d’animo altrui e la tendenza a sintonizzarsi con essi. Studi più recenti, invece, danno un quadro meno lusinghiero delle capacità relazionali delle persone con SW, evidenziando il fatto che le reazioni emotive sollecitate dagli altri sono eccessive e sproporzionate. Soprattutto si evidenzia come nelle persone con SW sia compromessa anche la capacità di formarsi una teoria della mente (Sullivan et al., 1999). In sostanza le persone con SW avrebbero forti difficoltà nel comprendere cosa realmente sta pensando e provando l’altro. Tali problemi si spiegherebbero con i concomitanti deficit nelle capacità di comprendere gli aspetti pragmatici (Happè, 1993) della comunicazione e di inferire gli stati d’animo dall’espressione del volto (Gagliardi et al., 2003).
Continuando questa breve rassegna di caratterizzazioni dello sviluppo cognitivo e socioemotivo delle persone con SW ci accorgiamo che ulteriori incongruenze esistono in letteratura. Si afferma, infatti, che le difficoltà relazionali sono dovute anche al fatto che i soggetti affetti da SW tenderebbero a concentrarsi troppo sui particolari, perdendo di vista il contesto, per effetto di una tipica modalità attenzionale iperfocalizzata, che renderebbe loro difficile distogliere
l’attenzione da ciò che stanno osservando per orientarsi verso uno stimolo percettivo subentrante (Mervis et al., 2003).
Allo stesso tempo, però, si è affermato che sarebbe altrettanto tipica della SW
l’associazione con il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (Dilts et al., 1990). Come si sa questo disturbo è caratterizzato da una patologica incapacità di focalizzare l’attenzione su un’attività sia essa ludica o di studio.
Risulta evidente l’incongruenza fra questi due tipi di caratterizzazione, nonché molto articolata e macchinosa una spiegazione fondata solo sulle caratteristiche neuropsicologiche dettate dal genotipo. A questo proposito Gosh e Pankau (1994) affermano di non aver rilevato un comportamento iperattivo nel loro campione di soggetti affetti da SW. Sarimski (1997) dal canto suo, conclude che l’iperattività è un disturbo correlato alla SW, ma non sindromespecifico.
Infine, anche a livello psicoaffettivo le descrizioni dei soggetti con SW sono estremamente contrastanti: a fronte di una tradizione descrittiva che vuole la persona con SW gioviale (Tomc et al., 1990), estremamente aperta e curiosa nelle relazione, facile da “gestire” e piuttosto serena, recenti descrizioni ci riferiscono di casi affetti da Disturbo d’Ansia Generalizzata oppure da umore depresso e irritabile (Dyckens, 2003). Altri studi, addirittura, evidenziano come l’incidenza dei disturbi psicotici sia più alta rispetto alla popolazione dei “normodotati” ed equiparabile a quella riscontrabiel in campioni di soggetti affetti da altro genere di Disturbi dello Sviluppo quali ad esempio il disturbo autistico.
Intento di questo mio breve excursus non è quello di supportare una caratterizzazione piuttosto che un’altra, ma quello di sottolineare come, salvo alcune eccezioni, gli studiosi tendano a far risalire tutte le caratteristiche di una persona affetta da SW al piccolo segmento di cromosoma che si ritiene sia responsabile della sindrome: il gene ELN.
Questa tendenza comporta il fatto che la diagnosi si giustappone alla persona e viene utilizzata per dare conto un po’ di tutto: dalle caratteristiche somatiche alla Condizione Medica Generale, dalle caratteristiche cognitive a quelle emotive, dal modo di viversi l’amicizia a quello di rapportarsi alla sessualità.
Si tende a perdere di vista il quadro d’insieme, la moltitudine di fattori che concorrono a formare la personalità di un individuo. Soprattutto la vita e il carattere delle persone affette da SW acquisiscono una forma predeterminata e gli spazi di intervento per migliorare la Qualità della Vita, soprattutto sotto gli aspetti socioemotivo e sessuale.
Si arriva persino a dimenticare che il gene ELN è un infinitesima parte del genoma di una persona e che se è vero che il genotipo rende ogni individuo differente dall’altro allo stesso modo è vero che ogni persona da SW è unica e irripetibile.
La configurazione affettiva e sessuale di una persona sono il risultato della complessa interazione di una moltitudine di fattori:
La capacità di regolare le emozioni: essa consiste nel saper distinguere
le varie sfumature emotive e nel riuscire a sperimentare tutte le
emozioni, siano esse positive o negative, senza provare ansia o
malessere;
Gli stili di attaccamento: essi consistono nel particolare modo di
relazionarsi alle figure di riferimento in età infantile e determinano i
cosiddetti Modelli Operativi Interni (Ainsworth, 1978) i quali sono la
matrice delle nostre relazioni lungo tutto l’arco della vita;
Il livello di integrazione corporea: che consiste nella conoscenza e
nell’accettazione di tutte le parti del corpo (anche degli organi sessuali).
Questi sono gli aspetti che, insieme ad altri, permettono di costruire relazioni intime fluide, caratterizzate da un intenso coinvolgimento emotivo e dalla condivisione degli aspetti più segreti e nascosti delle persone, comprese le nudità del corpo.
I contributi dell’Infant Research (Beebe e Lachmann, 2002) forniscono prove sempre più convincenti del fatto che già nei primi mesi di vita si gettano le basi per determinare come si evolveranno questi tre aspetti. Essi scaturiscono dalle sottili interazioni visive, sonore e tattili fra madre e neonato.
Questo filone di ricerca, inoltre, ha evidenziato come i bambini già a questa età abbiano un ampio e flessibile repertorio comportamentale che facilmente si adatta alla figura adulta con cui interagiscono al momento.
Infine risulta interessante sapere che, affinchè il sistema diadico si strutturi come un ambiente confortevole è necessario calibrare l’intensità dell’interazione sulle caratteristiche temperamentali del bambino, in maniera che essa non risulti nè deprivante nè iperstimolante.
Andando a prendere in considerazione il sistema diadico costituito da una madre e da un neonato affetto da SW, il discorso non cambia molto, purchè si tengano nel debito conto le caratteristiche del bambino e della sua malattia, da una parte, e le caratteristiche della madre e gli effetti sul suo stato d’animo della nascita del figlio e della diagnosi.
Da una parte possiamo avere un neonato affetto da iperacusia e ipersensibilità tattile. Il canale sonoro sembra essere quello privilegiato per ottenere l’accesso all’emotività del bambino come mostrano gli studi di RMf che evidenziano un ampio coinvolgimento dell’amigdala in situazioni di ascolto musicale. Dall’altra possiamo avere una mamma che ancora non ha imparato ad interagire con un figlio che ha le caratteristiche sopramenzionate. Ella può sperimentare un profondo senso di inadeguatezza per aver generato un figlio malato e/o per le difficoltà che incontra nel prendersene cura.
Una diade madre bambino con queste caratteristiche se non è sostenuta dal punto di vista psico-pedagogico rischia di incanalarsi su modalità interattive dannose per entrambi. Ad esempio la madre abbracciando il bambino può indurre in quest’ultimo pianto a causa della sua ipersensibilità tattile, di risposta la madre può sperimentare ansia e rispondere con un ulteriore stimolazione nel tentativo di cullare il neonato, il quale a sua volta può reagire male. Si può così innestare un circolo vizioso che può portare all’esasperazione degli stati emotivi di entrambi o indurre la madre a interagire il meno possibile con il bambino, almeno sotto l’aspetto emotivo.
Il sistema può così configurarsi come un ambiente a tratti iperstimolante e a tratti deprivante. Ciò determina con molta probabilità uno stile di attaccamento
insicuro-ambivalente nel bambino.
Le relazioni intime di un adulto con uno stile di attaccamento insicuroambivalente sono in tutta probabilità caratterizzate da ansia, apprensione e
senso di precarietà. Alla luce di ciò va riconsiderata la caratteristica tendenza delle persone con SW di mostrare interesse verso molte persone diverse senza allacciare relazioni durature. È possibile formulare nuove ipotesi che hanno tanto a che fare con le anomalie neurologiche determinate dalla delezione del gene ELN, quanto con i Modelli Operativi interni sviluppati nel corso della evoluzione psicologica, emotiva e relazionale dell’individuo.
Gli aspetti problematici legati alla sessualità, purtroppo non si esauriscono qui.
Molto spesso nelle patologie che comportano ritardo mentale si riscontrano fenomeni di masturbazione coatta, di gesti impulsivi a carattere sessuale, di disinibizione sessuale (esibizionismo, approcci sessuali espliciti, ecc.). dagli studi sui comportamenti impulsivi e compulsivi e sulla dipendenza sessuale sappiamo che il denominatore comune di essi è la difficoltà nel regolare le emozioni (Gratz, 2004). Come abbiamo detto prima la regolazione delle emozioni non consiste tanto nel reprimere le emozioni negative, quanto nel riuscire a distinguere, differenziare, nominare, sperimentare ed, infine, esprimere tutte le emozioni. Al contrario per il soggetto alessitimico tutte le emozioni, positive e negative, prendono l’aspetto di uno stato di tensione indistinto, un ingiustificato senso di attivazione psicofisiologica che urge uno sfogo per ridurne l’intensità. I comportamenti impulsivi e compulsivi, e quelli di dipendenza sessuale hanno la funzione di ridurre lo stato di tensione anche se per poco tempo. Anche i gesti aggressivi, sia quelli diretti verso l’ambiente che quelli autodiretti, possono essere considerati in questa cornice esplicativa. In assenza di stimolazione da parte dell’ambiente il soggeto alessitimico sperimenta un insostenibile senso di vuoto e di depersonalizzazione. I comportamenti impulsivi-compulsivi, di dipendenza e autolesivi hanno la funzione di riempire il vuoto interiore e di ricondurre il soggetto a se stesso strappandolo agli stati di depersonalizzazione che sperimenta. È difficile dire quali siano i fattori che nel corso della storia di vita di un individuo conducano a questo tipo di deficit. Sicuramente non è possibile ricondurre tutto ad un’unica causa eziologica. Nell’ambito di questo mio intervento vogliio mettere in evidenza due fattori, probabili precursori dei deficit di regolazione delle
emozioni, che nel mondo della disabilità sono trascurati e negletti:
La carenza cronica di modalità e setting adeguati per l’espressione delle
emozioni;
I traumi e gli stress infantili.
La persona disabile vive molto spesso in una condizione di analfabetismo emotivo. Ciò è dettato da una molteplicità di fattori. Fra quelli individuali possiamo annoverare le difficoltà di linguaggio e le menomazioni motorie.
Sappiamo che dare voce e movimento alle emozioni siano le modalità privilegiate di espressione delle emozioni. Per tutti noi è importante non solo esprimere le emozioni, ma farlo anche in maniera efficace cioè in maniera da riuscirà a toccare l’emotività dell’altro e sentire, che questi non è rimasto indifferente ad esse. Laddove ci siano problematiche psicolinguistiche o psicomotorie che impediscono l’espressione e la comunicazione efficace della nostra realtà emotiva la persona può versare in una condizione di isolamento emotivo che può condurre negli anni ad un impoverimento della sua realtà interiore. È importante a tale proposito insegnare alla persona con disabilità ad usare delle modalità espressive e comunicative che utilizzino le risorse sane della persona disabile, ma allo stesso tempo è importante che le persone che costituiscono l’ambiente sociale della persona disabile sappiano comprendere questa modalità comunicativa e utilizzarla per dialogare emotivamente con la persona disabile stessa. Per rincodurre il discorso al caso specifico della SW possiamo ipotizzare che la musica possa essere un veicolo privilegiato di emozioni più del contatto fisico e forse del linguaggio, considerata la spiccata predisposizione delle persone con SW a dare un significato emotivo ai loro input uditivi. In ogni caso è bene sottolineare che non esiste un modo buono per tutti, ma le modalità comunicative migliori vanno ricercate e tarate caso
per caso nella relazione.
Come abbiamo già accennato, le persone tutte e quelle disabili anche hanno bisogno di esprimere pensieri ed emozioni, ma ancor di più hanno bisogno di sapere che essi sono stati recepiti e accolti dall’ambiente relazione circostante.
Molto spesso, però, si verifica che l’ambiente familiare non è pronto ad accogliere i sentimenti di una persona disabile in quanto elicitano risonanze dolorose. Per essere più chiari capita spesso che l’esprimere sofferenza per una delusione nelle relazioni di amicizia o di amore, provochi nel genitore una forte sofferenza perché va a toccare e a risvegliare nuclei di sensi di colpa che dopo tanti anni dalla nascita del figlio disabile sono ancora presenti.
Le reazioni alla sofferenza possono essere molteplici, ma spesso si manifesta una tendenza alla repressione della fonte di questa sofferenza. Tali tentativi di repressione possono darsi in tanti modi: dalla repressione rabbiosa e punitiva alla tendenza a minimizzare, dalla rimozione dell’intero problema all’utilizzo di psicofarmaci (ansiolitici, stabilizzatori dell’umore, ecc.) nel tentativo di sedare ogni sussulto emotivo (Lisak, 1994).
Se la repressione/negazione/disconferma delle emozioni diventa cronica può condurre anche all’insorgenza di veri e propri disturbi psichiatrici (disturbi d’ansia, PTSD, depressione, disturbi di personalità, ecc.) che vanno a sovrapporsi alla patologia di origine genetica.
Il rischio diventa maggiore quando le persone hanno una storia di abuso in età infatile; di particolare impatto psicopatologico sembrano essere i ripetuti abusi
sessuali.
Anche se in Italia si ha ancora scarsa coscienza di quanto il fenomeno dell’abuso sessuale a danno di persone disabili, la letteratura internazionale ci evidenzia come l’incidenza di abuso sessuale nella popolazione delle persone con disabilità sia maggiore di quella rilevabile nella popolazione delle persone “normodotate” (American Psychiatric Association, 1987; Finkelhor, 1984; Gordon, 1971; Krents, Schulman & Brenner, 1987; Mayer, 1988; Morgan, 1987; O’Day, 1983; Sullivan & Scanlan, 1988; Zipoli, 1986).
La maggiore incidenza dell’abuso sessuale su persone con disabilità è determinata da diversi fattori di rischio. Il primo e più importante fattore di rischio per le persone con ritardo mentale è legata alla dipendenza dai cosiddetti caregiver (operatori e familiari che si prendono cura della persona con disabilità – O’Day, 1983). In molti casi questa dipendenza è necessaria a causa della gravità del ritardo, ma in altri casi essa non è necessaria; nonostante questo sia la persona assistita che chi assiste non se la sentono di cambiare.
La dipendenza e l’acquiescienza che ne deriva (Anderson, 1982) rende le persone con disabilità mentale molto vulnerabili.
Un altro fattore di rischio è legato alle ridotte capacità di comunicazione che rendono difficile prevenire o denunciare i tentativi di molestia (Anderson, 1982).
Molto spesso gli handicap sia mentali che fisici possono ridurre la forza per reagire o scappare. Inoltre gli aggressori sanno della vulnerabilità delle persone disabili e per questo sono attratti molto di più da queste persone le quali diventano comodi oggetti dei loro abusi (O’Day, 1983).
Nella maggior parte dei casi le persone con disabilità fisica e/o mentale si trovano in condizione di emarginazione: a causa di questa condizione esistenziale questi individui possono accettare di fare cose che non vorrebbero fare pur di essere inseriti nella comunità delle persone normali (Matson & Sevin, 1988).
Molto spesso le persone disabili non hanno ricevuto la minima forma di educazione sessuale (Piper, 1976) in quanto affrontare con questi ragazzi l’argomento della sessualità genera ansie e insicurezze (Alcorn, 1974; Hammar, Wright, & Jensen, 1967).
Mitchel, Doctor, e Butler (1978) hanno evidenziato che un terzo dello staff delle residenze per persone con handicap non accetta nessun tipo di contatto fisico per esse, meno che mai contatti di genere sessuali. In realtà le pulsioni sessuali e lo sviluppo sessuale delle persone con medio e moderato ritardo mentale non è differente da quello di persone “sane” (Gordon, 1971; Hall, Morris, & Barker 1973). Nonostante le tante ricerche che dimostrano l’attività sessuale delle persone con handicap mentale (Chamberlain, 1984), il mito dell’asessualità di esse continua a persistere.
La situazione è ancora peggiore: i bambini e le bambine con ritardo mentale sono esclusi dai programmi educativi di prevenzione che i loro coetanei non disabili fanno normalmente a scuola, in quanto frequentano programmi di educazione differenti. Anche quando non frequentano classi speciali, il livello di esposizione di questi programmi di prevenzione dell’abuso non è comprensibile (O’Day, 1983).
Randall (Randall et al., 2000) sostiene una tesi controintuitiva o comunque non in linea con quanto comunemente affermato circa la maggiore prevalenza dell’abuso sessuale fra il genere femminile. Nel suo studio mette in evidenza, infatti, che sono i ragazzi con i deficit intellettivi ad essere a maggior rischio di abuso sessuale rispetto alle ragazze con disabilità analoghe. Una possibile spiegazione potrebbe essere che il rischio di abuso sessuale nei ragazzi è sottovalutato e quindi le famiglie lasciano loro maggiore libertà di quanto non facciano con le figlie. Gli autori individuano l’età fra i 6 e i 12 anni l’età maggiormente a rischio di abuso sessuale e per questo sollecitano programmi di prevenzione e di educazione sessuale già alle elementari.
Per quanto riguarda lo specifico delle persone con SW, la tipica estroversione di quest’ultime associata alla difficoltà di comprensione degli aspetti pragmatici della comunicazione può renderle più vulnerabili.
In conclusione, con questo intervento voglio sottolineare l’importanza di non trascurare gli aspetti psicologici e relazionali nelle persone disabili in generale e in quelle affette da Sindrome di Williams nello specifico. Inoltre, adeguati training psicoaffettivi e di educazione sessuale sono molto utili sia per migliorare la qualità delle relazioni interpersonali e intime, sia per prevenire comportamenti devianti e abusi sessuali. Bibliografia.
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Beebe B., Lachmann F. M., Infant Research e trattamento degli adulti, Cortina,
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Briere J. N., 1992, Child abuse Trauma, Sage, Publ. London
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Cattanach A., 1992, Play therapy with abused children, Jessica Kingsley
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Giannotti A., Vicari S., 2004, La sindrome di Williams : clinica, genetica e riabilitazione, Milano
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Di seguito ri-pubblico una mia intervista del 2010 a cura della dr.ssa LOBEFARO MANUELA… temi sempre attuali.
Kelly Perks-Bevington ha un problema al midollo spinale che l’ha bloccata sulla sedia a rotelle quando aveva 11 anni ma sei mesi fa si è sposata con il suo fidanzato Jaz e, dice, “solo il giorno del nostro matrimonio l’abbiamo fatto 3 o 4 volte”. Kelly dice che i pregiudizi della gente riguardo ai disabili possono essere davvero imbarazzanti: “Dopo le nozze ordinai un cocktail dalla camera dell’hotel e il cameriere portò il conto a mio fratello pensando che fosse lui mio marito, semplicemente perché anche lui era in carrozzina!”
Per conoscerla meglio, Dott. Bizzarri di cosa si occupa? Sono uno psicologo e mi occupo di consulenze psicologiche mirate alla prevenzione del disagio e alla promozione della qualità della vita. I miei interventi sono spesso rivolti a persone che in prima persona vivono la condizione di disabilità oppure che per motivi di legami familiari o per lavoro hanno a che fare con la disabilità. Ho promosso e condotto corsi di formazione e sensibilizzazione rivolti a questa particolare popolazione in particolare sulla tematica della sessualità e dello sviluppo del senso di autonomia ed autodeterminazione delle persone con disabilità. Sono stato anche Consigliere dell’Ordine degli Psicologi durante il mandato 2009-2013 e per questo mi sono anche occupato dell’organizzazione di campagne di sensibilizzazione della cittadinanza a prendersi cura del loro benessere psicologico.
Cosa l’ha spinta ad occuparsi di corsi di formazione nell’ambito dell’affettività, dei sentimenti e dell’educazione sessuale nelle persone con disabilità?Uno degli aspetti che mi ha stimolato è sicuramente il fatto che fosse un tema poco esplorato ed approfondito. Avevo letto qualche libro in proposito e tutti mi sembravano un po’ a senso unico, sottolineando esclusivamente gli aspetti negativi della questione: i rifiuti, le delusioni, i rischi legati all’abuso e alle gravidanze indesiderate, le problematiche relative al controllo degli impulsi, ecc. Essendo io oltre un addetto ai lavori, anche una persona che viveva questa dimensione sulla propria pelle, avevo un punto di vista privilegiato per essere consapevole del fatto che il binomio sessualità e disabilità non è solo sofferenza, ma anche gioia profonda. Avevo sperimentato nel mio sviluppo personale come la sessualità per una persona disabile in particolare può essere un grande ponte per accedere al mondo cosiddetto della “normalità” e mi stimolava l’idea di condividere questa esperienza e verificare la sua generalizzabilità anche ad altre persone e ad altre forme di disabilità.
Durante le esposizioni sulle tematiche della sessualità nella disabilità, ha mai provato una sensazione di disagio, considerando il silenzio che avvolge questa tematica?No devo dire che non ho mai provato disagio anche perché comunque ho affrontato la tematica più da tecnico che esponendo le mie esperienze personali. Esse sono state per me un punto di riferimento e di confronto con le aspettative e le esperienze altrui, ma mai oggetto di discussione dei miei interventi anche perché le esperienze in sé e per sé non hanno un valore per l’altro che ha un vissuto differente, possono essere prese come pietra di paragone, ma non ritenute un qualcosa che può essere riproposto tale e quale nella vita altrui. Ho sempre riscontrato molto interesse da parte di operatori, familiari e persone con disabilità che sentivano proprio il bisogno di parlare di questa tematica proprio in virtù del fatto che non esistevano spazi alternativi per condividere. In alcuni casi c’erano richieste di aiuto vere e proprie rispetto a situazioni più problematiche legate al comportamento sessuale di ragazzi con grave ritardo mentale o autismo. Il fatto di aver approcciato il tema con serenità e con un atteggiamento possibilista e legittimante comunicava molta speranza ed era già in parte funzionale ad un livello superiore di benessere perché attenuava l’ansia e dava il permesso di vivere questa dimensione della vita.
“Si può essere donna anche se non perfetta. Questa idea può fare spazio a diverse argomentazioni: far pensare che un corpo femminile in reggiseno non è un oggetto, far riflettere sul problema del bullismo verso chi è perepito come dverso, ma anche su quello dei disturbi alimentari vissuti da chi non si accetta per come è. Occorre capire quello che vuole nascere dietro a questo progetto.” Tratto dall’intervista di Superabile Inail Maggio 2016 a Valentina Tomirotti – Impiegata nei servizi sociali del Comune di Porto Mantovano laureata in Scienze della comunicazione specializzazione in giornalismo. Blogger: pepitosablog.com.
Il tabù intorno al tema della sessualità nella disabilità è un ostacolo che, secondo lei, parte principalmente dalla società o dalla famiglia?Beh diciamo che per la Società è più facile accettare che le persone con disabilità si vivano la propria sessualità, in quanto di solito tutte le difficoltà implicate se ne fa carico la famiglia laddove la persona disabile stessa non riesce a gestire le situazioni. Certo che se invece poi parliamo di come le istituzioni si impegnano con programmi di sostegno pratico e psicologico alle persone disabili che contribuiscano a creare le condizioni propedeutiche al vivere la sessualità in maniera soddisfacente, è evidente che la crisi dei servizi sociali che stiamo attraversando sia un impedimento molto più marcato di quello che fanno le famiglie. Per fare un esempio è evidente che per un ragazzo disabile sia molto difficile vivere la propria sessualità se non ha i mezzi e le possibilità per uscire, fare amicizie, conoscere altre ragazze ed eventualmente allacciare relazioni sentimentali. Il riconoscimento della Società intesa come istituzioni e servizi è solo formale dato che non c’è poi quel sostegno che sarebbe opportuno desse alle persone disabili e viene delegato tutto al singolo o alla famiglia. Se ci fossero più servizi e le cose fossero meno difficili, anche le famiglie sarebbe più tranquille nel lasciare spazio e autonomia ai figli/fratelli. In sintesi, agevolare l’emancipazione dalla famiglia delle persone disabili comporta automaticamente la possibilità da parte di tutti di vivere la sessualità più serenamente.
Durante le formazioni dirette a genitori, educatori o diretti interessati, quali sono gli ostacoli maggiormente riscontrati?Un problema strutturale è legato alla continuità dei progetti che purtroppo anche qui è inficiata dalla difficoltà di reperire risorse economiche. Rispetto al lavoro in sé e per sé la parte più difficile è quella di modificare gli atteggiamenti di base che sottostanno ai copioni comportamentali. Il lavoro di espressione e condivisione delle emozioni dà molte soddisfazioni e benefici, ma purtroppo quando si cerca di fare un lavoro un po’ più profondo si è già arrivati al termine del percorso. La parte psicoeducativa dell’intervento può dare solo frutti parziali in quanto molto spesso è necessario intervenire sugli stili di attaccamento e su complessi emotivi molto resistenti e questo necessita molto tempo in quanto non è sufficiente comunicare quali sono le cose più giuste da fare per far in modo che esse vengano fatte.
Dopo le formazioni dirette a genitori, educatori o diretti interessati ha avuto dei riscontri positivi, come ad esempio più tranquillità nell’affrontare la tematica dell’amore?Sì come ho detto prima, la condivisione dà molti risultati positivi in particolare il confronto fra persone con disabilità consente di acquisire fiducia e un senso di legittimazione che porta ad uscire dal guscio. Ovvio che poi nel relazionarsi con le persone da un punto di vista erotico-sentimentale ci si può imbattere in delusioni e contrattempi, ma il fatto di avere uno spazio di condivisione aiuta molto. A volte questo tipo di setting può agevolare l’accettazione di avere relazioni e flirt con persone che condividono la condizione di disabilità a volte del tutto rifiutata, soprattutto dai giovani. Con ciò non voglio dire che una persona disabile dovrebbe farsi piacere per forza un’altra persona disabile, ma neanche escluderla a priori. Tante relazioni e storie d’amore che danno molte soddisfazioni, si allacciano tra persone entrambe disabili.
In molti paesi europei è ormai presente, da circa dieci anni, la figura professionale “dell’assistente sessuale”, in Italia invece no. Qual è il suo parere in merito a questa figura? Saranno strutturati servizi di assistenza/educazione sessuale secondo lei?Devo dire che visto il momento economico degli enti locali e delle istituzioni statali mi sembra molto improbabile che venga istituito e finanziato un servizio di assistenza sessuale laddove non si riesce a garantire l’assistenza di base. Oltre a queste difficoltà pratiche di origine economica, credo che si dovrebbe delineare meglio la funzione dell’assistenza sessuale. Dovrebbe servire ad aiutare una persona con difficoltà motoria a fare sesso con un’altra persona o a praticare l’autoerotismo? Dovrebbe soddisfare direttamente i desideri sessuali della persona disabile? Dovrebbe insegnare come si fa l’amore a persone che hanno handicap intellettivi? Da quanto ho appreso nei colloqui con familiari di persone con handicap mentale, mi sembra che la fantasia sia proprio quella che
venga istituita una figura professionale che surroghi la funzione di un partner: una sorta di prostituzione istituzionalizzata prodromica magari all’abolizione della legge Merlin. Questa ipotesi a mio avviso, è una risposta ad una concettualizzazione meccanicistica della sessualità secondo la quale l’eccitazione sessuale ha un’origine biologica e il suo esito naturale sarebbe lo sfogo fisico in sé e per sé. Eppure se si presta attenzione alla realtà e ci si confronta con i racconti delle esperienze sessuali dei ragazzi con disabilità si rileva che le esperienze sessuali fatte con persone estranee sono poco soddisfacenti, a volte traumatiche e comunque non soddisfano il desiderio più complesso di avere una relazione e sperimentare l’innamoramento. In sintesi la mia opinione è che questa opzione non può essere applicata a tutti i disabili eventualmente utilizzata nei casi limite di ragazzi con grave ritardo mentale e forti problematiche relative al controllo degli impulsi sessuali. E comunque la funzione non dovrebbe essere quella di fare sesso con queste persone, ma aiutarle a conoscere il loro corpo e a tramutare in comportamenti funzionali i propri impulsi sessuali ad esempio insegnando la pratica dell’autoerotismo e le limitazioni del vivere sociale. Legittimare il ricorso ad un’assistente sessuale per tutti i disabili rischia di diffondere un pesante stigma sociale secondo il quale i disabili non possono sedurre e/o far innamorare nessuno e per garantire loro l’espressione della propria sessualità occorre istituire una figura professionale che per lavoro e non per sentimento fa sesso con questi.
Come potremmo intervenire nel contesto sociale per migliorare il rapporto con la sessualità nel disabile?L’intervento deve essere a più livelli: psicologico, sociale, economico, culturale, ecc. Per quanto attiene al lavoro specifico della psicologia è necessario innanzitutto aiutare da una parte i ragazzi disabili a consapevolizzare o rinforzare la propria legittimazione ad essere al mondo. Avere il diritto ad essere al mondo significa anche sentire di poter dare molto alle altre persone: l’amore e il piacere sessuale sono forse le forme più alte di contributo che si può dare agli altri. Per fare ciò è necessario ripercorre i primi anni di vita e il trauma che la coppia genitoriale ha vissuto nel momento della diagnosi della patologia del nascituro. Questi aspetti hanno inevitabilmente delle ricadute nella cura del bambino e sul suo stile di attaccamento che come è noto influenza in età adulta le relazioni intime.
Per concludere, la sessualità è caratterizzata da molteplici sfaccettature, cosa pensa lei del diritto alla sessualità nella dimensione disabile?Che un diritto inalienabile di ogni persona e che trovo anche indicativo che esso debba essere ribadito per quanto riguarda le persone disabili. Allo stesso tempo la sessualità è in stretto contatto con l’amore e questo non può essere indotto attraverso alcuna tecnica né decretato per legge. I tecnici e i politici possono darsi da fare per creare le condizioni necessarie affinché le persone disabili possano vivere la propria sessualità, ma nessuno ha il potere di far innamorare qualcuno come cupido. Discorso diverso è la legittimazione a vivere la sessualità e ad esprimerla, questa è una battaglia che ogni persona disabile, ogni familiare e ogni operatore dovrebbe sposare, perché negare il diritto ad esprimere la propria sessualità è, a mio avviso, equiparabile alla negazione della natura umana. Non esiste essere umano che non provi sentimenti e desideri sessuali.
Sono Manuela Lobefaro, nata a Bari il 29/05/1986. Nel 2013 ho conseguito la Laurea Specialistica in Scienze della Formazione indirizzo “Educatore e Coordinatore dei Servizi Educativi e dei Servizi Sociali” con voto 110/110 tesi: “IL DIRITTO ALLA SESSUALITA’. PROSPETTIVE E PROPOSTE EDUCATIVE NELLA DIMENSIONE DISABILE” argomento spesso rimosso e affrontato con disagio, in una società che carica di stereotipi, considera i protagonisti come asessuati ed eterni bambini, sottovalutando ed annullando la sfera sentimentale ed affettiva, tanto presente quanto importante per lo sviluppo e il benessere del singolo. Sono cresciuta con due fratelli, di cui uno affetto da Sindrome di Down, si chiama Dario e probabilmente grazie a lui è nato in me l’amore e il rispetto verso ogni disabilità. Nel corso degli anni tirocini, volontariato presso associazioni ed esperienze scolastiche di assistenza scolastica specialistica come educatore mi hanno continuato a far crescere. La tesi della Laurea triennale in Scienze dell’educazione e della formazione “Educatore nei Servizi socio culturali e interculturali” tratta un argomento altrettanto delicato relativo agli abusi e alle violenze verso i soggetti diversamente abili.
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Ho il piacere di condividere una mia intervista sul tema “Amore, innamoramento e matrimonio” delle persone con disabilità pubblicata nel Magazine SuperAbile INAIL. L’intervista è parte, insieme ad altri contributi, dell’inchiesta “Prima o poi l’amore arriva” (Pag. 8).
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