Pubblicato anche un mio articolo sul BLOG dell’Ordine degli Psicologi del Lazio su “Il fatto quotidiano”.
La ricerca è importante… soprattutto nel campo delle patologie degenerative. Chi vive una condizione disabilità stabile riesce a trovare il più delle volte un equilibrio ci si attrezza, si prendono contromisure e la vita va avanti. Una persona affetta da una patologia degenerativa è costretta a continui riadattamenti ad un corpo che perde progressivamente abilità e limita sempre di più la propria autonomia. Oggi la ricerca ha prodotto risultati davvero buoni si consideri che la speranza di vita di certe patologie degenerative si è raddoppiata e con una buona qualità della vita.
Riuscire a produrre uno spot che faccia affluire quanti più fondi per la ricerca è una cosa buona ed usare una modalità paradossale e che sfrutta l’ambivalenza delle persone può essere un’intelligentissima operazione di marketing.
Occhio però ai messaggi impliciti che lo spot veicola! A mio avviso esso fa pensare a due mondi che sono inevitabilmente destinati a confliggere. È un po’ come se dicesse: “i disabili si approfittano della loro condizione, facciamoli guarire così non hanno più scuse”… Mirko (il piccolo protagonista) ha dei comportamenti molesti gratuiti, non dettati dalle necessità della disabilità: come sbattere sulla macchina senza scusarsi, giocare alla play a tutto volume di notte, dire al padre di non spostarsi anche se ci vorrebbe un attimo per far passare la persona che va di fretta. Il bambino viene ritratto, in questo modo, come se facesse leva sul “potere” che gli dà la disabilità e il fatto che tutti contengono Zalone dal “cantargliene quattro” perché non sta bene rimproverare un ragazzino sulla sedia rotelle. E’ un po’ come se l’autore dello spot, abbia voluto sfruttare la rabbia verso le persone disabili per fare uno spot diverso e per tale motivo attraente, ma anche di legittimarla attraverso comportamenti scorretti dei disabili e delle famiglie che non danno l’educazione ai figli perché anche loro stessi colti da un senso di sudditanza psicologica verso un bambino affetto da una terribile malattia. Alla fine le persone disabili vengono sottilmente biasimate e in questo modo si mette in evidenza il bisogno di legittimare una rabbia che evidentemente è più intensa di quanto non si sospetti visto che si trova la necessità di giustificarla. Il rischio, inoltre, è che cadano nello stesso calderone, sia le giuste rivendicazioni, utili ad affermare i diritti delle persone con disabilità e delle loro famiglie, sia i comportamenti sopra le righe ingiustificati con conseguente neutralizzazione dei primi.
Dopo aver trattato altrove il tema dell’eutanasia, torno ad occuparmene a causa della stringente attualità del tema dettata dalla notizia che in Belgio i genitori di un minore hanno autorizzato i medici ad indurre nel figlio la cosiddetta “dolce morte” come previsto dalla legge belga, nonché dalla presentazione avvenuta il 12 settembre scorso presso il Senato della Repubblica italiana, di un Disegno di Legge per la legalizzazione dell’eutanasia.
Riconoscere/esercitare il diritto, a mio avviso inalienabile, di chiedere ai medici di indurre la propria morte in modo indolore, comporta una gigantesca responsabilità derivante dal valore intrinseco di ogni vita e dal fatto che la vita in prossimità della morte ha ancora più importanza: la fase terminale della vita di una persona deve poter essere il tempo dedicato a valorizzare gli affetti, a recuperare le relazioni incrinate, a chiudere le questioni sospese, a curare il proprio lascito materiale e, soprattutto, morale a chi rimane. Non può e non deve essere il tempo del dolore, dell’angoscia e della sofferenza.
Perciò uno Stato civile che voglia riconoscere il diritto di eutanasia ai propri cittadini più sfortunati, ha l’obbligo di assicurare che essa sia effettivamente l’unica strada percorribile, una misura estrema dopo che siano stati forniti tutti i supporti utili ed efficaci a garantire il miglior livello di qualità della vita e che le persone coinvolte siano state messe in condizione di scegliere con la massima consapevolezza piuttosto che sull’onda della disperazione.
Sì sa infatti che il dolore cronico, la disabilità che una patologia terminale può comportare, la prospettiva della morte a breve termine, l’essere oggetto di trattamenti terapeutici invasivi o di pratiche assistenziali che violano la privacy, pensare che la propria malattia è fonte di dolore o disagio per i familiari, non poter contribuire più come soggetti attivi al menage familiare o alle attività sociali, sono condizioni che getterebbero chiunque in uno stato di prostrazione tale da influenzare inevitabilmente il livello di consapevolezza e da condizionare il processo decisionale.
A tal proposito c’è da constatare che ad oggi in Italia:
meno della metà dei malati che necessitano di cure palliative riescono ad accedervi;
le cure palliative ospedaliere non rientrano nei Livelli Essenziali di Assistenza;
un intervento domiciliare di cure palliative viene posto in essere a patto che ci sia un familiare o assistente familiare che faccia da riferimento all’equipe;
non esiste una sinergia tra la rete di centri per le cure palliative residenziali e quella dei servizi domiciliari: tale mancata sinergia determina la condizione di ricorso al ricovero per accedere alle CP più alto di quanto non sia effettivamente necessario;
la famiglia del malato rimane il principale supporto assistenziale.
Una situazione come questa non mette in condizione la persona e i familiari di avere una visione lucida della situazione che consenta una decisione serena… è molto forte la possibilità che l’eutanasia venga vista come la via di fuga da una situazione che è diventata insostenibile per carenze assistenziali.
Accanto ad un efficace trattamento del dolore cronico e un livello assistenziale adeguato è necessario fornire supporto psicologico alla persona ed alla famiglia:
le condizioni sopraelencate posso determinare un intenso stato di rabbia che può essere ora riversata sui caregiver, ora retroflessa sul malato stesso: entrambe le dinamiche determinano meccanismi intrapsichici e relazionali potenzialmente forieri di sentimenti e pensieri depressivi;
i familiari possono sperimentare emozioni opposte ed ambivalenti quali dolore e rabbia, desiderio di stare accanto alla persona amata e al contempo di fuggire da una situazione angosciante e faticosa: il supporto psicologico è fondamentale per limitare le ferite psicologiche e valorizzare il tempo che rimane alla persona malata;
affrontare la morte e il suo mistero porta con sé anche sentimenti di angoscia e di paura che hanno bisogno di una presenza empatica che accompagni la persona nell’estremo passaggio;
allo stesso tempo i familiari possono provare un dolore troppo forte nella separazione, tale da fare resistenza e indurre la persona malata a subire sofferenze che non possono in alcun modo essere alleviate: anche rispetto a ciò il sostegno psicologico consente l’espressione delle emozioni di dolore, in maniera che non investano il malato o non determinino il fissarsi su posizioni di cura oltransiste.
Nell’affrontare la malattia terminale, il dolore, la sofferenza e la morte è opportuno mettere in condizione la persona malata e i suoi familiari di ricercare un senso nel destino di dolore a cui stanno andando incontro attraverso sessioni di counseling filosofico. Nessuna persona al mondo può dire che cosa ci sia dopo la morte ed è diritto della persona malata avere la possibilità di interrogarsi sul mistero al fine di affrontare con consapevolezza la scelta di esercitare il proprio diritto all’eutanasia (che ricordiamo in Italia non è ancora riconosciuto).
Ancora più spinosa diventa la questione nel momento in cui sono coinvolti bambini (sottolineiamo che la legge Belga non pone alcun limite inferiore di età, a differenza di quella Olandese che riconosce il diritto all’eutanasia a partire dai 12 anni di età o della DDL presentato in Italia che stabilisce il requisito della maggiore età). O ancora più complesse le situazioni in sono coinvolte persone che a causa di gravi handicap intellettivi o della comunicazione hanno maggiori difficoltà ad esprimere la loro volontà.
In entrambi i casi è enorme la responsabilità e il tormento dei familiari che devono decidere cercando di decodificare il volere della persona malata, immedesimandosi con quest’ultima o sulla base dei loro sentimenti e desideri. Un dilemma atroce che in ogni caso segna profondamente l’animo delle persone coinvolte.
Sovente accade alle persone con disabilità che l’espletamento delle attività necessarie alla soddisfazione dei loro bisogni, anche primari come in questo caso, sia oggetto di un rimpallo di responsabilità fra diversi soggetti (persone, organizzazioni, istituzioni) le quali, nell’ansia di affermare le proprie istanze perdano di vista la persona con disabilità stessa seppur con l’intento di tutelarla.
In relazione alla polemica tra le associazioni a tutela dei bambini con disabilità e i sindacati scuola della regione Sicilia, vale la pena chiedersi se c’è stato qualcuno che si è domandato, nel braccio di ferro tra sindacati e associazioni di categoria, quale può essere l’impatto psicologico che può avere sull’alunno il doversi far assistere da persone pressoché sconosciute, poco avvezze ad assistere bambini con disabilità e mal disposte? L’atto di assistere un bambino nell’andare in bagno e nell’assistenza igienica, non è meccanico e impersonale come può esserlo (e fino ad un certo punto) accompagnarlo/a dentro o fuori l’istituto, ma è una vera e propria relazione d’aiuto che implica la sfera più intima della persona assistita. Non lo è per i bambini in età pre-scolare e, a maggior ragione, non lo è per gli alunni di disabili della scuola primaria e secondaria. Senza entrare nel dettaglio ci si può facilmente rendere conto come i rischi di incuria, abuso psicologico e sessuale non siano affatto remoti.
L’intimità dell’atto di andare in bagno implica il diritto da parte del bambin*/ragazz* con disabilità di potersi far assistere da una persona conosciuta, con la uale si è instaurato un rapporto di fiducia e confidenza, nonché la famiglia possa aver valutato l’affidabilità in termini di rispetto e astensione da pratiche abusanti. In sintesi, a mio avviso sarebbe più utile ed efficace promuovere la diffusione dell’assistenza indiretta anche a minori che li seguano in tutti i loro atti quotidiani, consentendo loro anche di accedere nella scuola per assistere il proprio utente nei bisogni fisiologici durante le attività scolastiche.
Di seguito ri-pubblico una mia intervista del 2010 a cura della dr.ssa LOBEFARO MANUELA… temi sempre attuali.
Kelly Perks-Bevington ha un problema al midollo spinale che l’ha bloccata sulla sedia a rotelle quando aveva 11 anni ma sei mesi fa si è sposata con il suo fidanzato Jaz e, dice, “solo il giorno del nostro matrimonio l’abbiamo fatto 3 o 4 volte”. Kelly dice che i pregiudizi della gente riguardo ai disabili possono essere davvero imbarazzanti: “Dopo le nozze ordinai un cocktail dalla camera dell’hotel e il cameriere portò il conto a mio fratello pensando che fosse lui mio marito, semplicemente perché anche lui era in carrozzina!”
Per conoscerla meglio, Dott. Bizzarri di cosa si occupa? Sono uno psicologo e mi occupo di consulenze psicologiche mirate alla prevenzione del disagio e alla promozione della qualità della vita. I miei interventi sono spesso rivolti a persone che in prima persona vivono la condizione di disabilità oppure che per motivi di legami familiari o per lavoro hanno a che fare con la disabilità. Ho promosso e condotto corsi di formazione e sensibilizzazione rivolti a questa particolare popolazione in particolare sulla tematica della sessualità e dello sviluppo del senso di autonomia ed autodeterminazione delle persone con disabilità. Sono stato anche Consigliere dell’Ordine degli Psicologi durante il mandato 2009-2013 e per questo mi sono anche occupato dell’organizzazione di campagne di sensibilizzazione della cittadinanza a prendersi cura del loro benessere psicologico.
Cosa l’ha spinta ad occuparsi di corsi di formazione nell’ambito dell’affettività, dei sentimenti e dell’educazione sessuale nelle persone con disabilità?Uno degli aspetti che mi ha stimolato è sicuramente il fatto che fosse un tema poco esplorato ed approfondito. Avevo letto qualche libro in proposito e tutti mi sembravano un po’ a senso unico, sottolineando esclusivamente gli aspetti negativi della questione: i rifiuti, le delusioni, i rischi legati all’abuso e alle gravidanze indesiderate, le problematiche relative al controllo degli impulsi, ecc. Essendo io oltre un addetto ai lavori, anche una persona che viveva questa dimensione sulla propria pelle, avevo un punto di vista privilegiato per essere consapevole del fatto che il binomio sessualità e disabilità non è solo sofferenza, ma anche gioia profonda. Avevo sperimentato nel mio sviluppo personale come la sessualità per una persona disabile in particolare può essere un grande ponte per accedere al mondo cosiddetto della “normalità” e mi stimolava l’idea di condividere questa esperienza e verificare la sua generalizzabilità anche ad altre persone e ad altre forme di disabilità.
Durante le esposizioni sulle tematiche della sessualità nella disabilità, ha mai provato una sensazione di disagio, considerando il silenzio che avvolge questa tematica?No devo dire che non ho mai provato disagio anche perché comunque ho affrontato la tematica più da tecnico che esponendo le mie esperienze personali. Esse sono state per me un punto di riferimento e di confronto con le aspettative e le esperienze altrui, ma mai oggetto di discussione dei miei interventi anche perché le esperienze in sé e per sé non hanno un valore per l’altro che ha un vissuto differente, possono essere prese come pietra di paragone, ma non ritenute un qualcosa che può essere riproposto tale e quale nella vita altrui. Ho sempre riscontrato molto interesse da parte di operatori, familiari e persone con disabilità che sentivano proprio il bisogno di parlare di questa tematica proprio in virtù del fatto che non esistevano spazi alternativi per condividere. In alcuni casi c’erano richieste di aiuto vere e proprie rispetto a situazioni più problematiche legate al comportamento sessuale di ragazzi con grave ritardo mentale o autismo. Il fatto di aver approcciato il tema con serenità e con un atteggiamento possibilista e legittimante comunicava molta speranza ed era già in parte funzionale ad un livello superiore di benessere perché attenuava l’ansia e dava il permesso di vivere questa dimensione della vita.
“Si può essere donna anche se non perfetta. Questa idea può fare spazio a diverse argomentazioni: far pensare che un corpo femminile in reggiseno non è un oggetto, far riflettere sul problema del bullismo verso chi è perepito come dverso, ma anche su quello dei disturbi alimentari vissuti da chi non si accetta per come è. Occorre capire quello che vuole nascere dietro a questo progetto.” Tratto dall’intervista di Superabile Inail Maggio 2016 a Valentina Tomirotti – Impiegata nei servizi sociali del Comune di Porto Mantovano laureata in Scienze della comunicazione specializzazione in giornalismo. Blogger: pepitosablog.com.
Il tabù intorno al tema della sessualità nella disabilità è un ostacolo che, secondo lei, parte principalmente dalla società o dalla famiglia?Beh diciamo che per la Società è più facile accettare che le persone con disabilità si vivano la propria sessualità, in quanto di solito tutte le difficoltà implicate se ne fa carico la famiglia laddove la persona disabile stessa non riesce a gestire le situazioni. Certo che se invece poi parliamo di come le istituzioni si impegnano con programmi di sostegno pratico e psicologico alle persone disabili che contribuiscano a creare le condizioni propedeutiche al vivere la sessualità in maniera soddisfacente, è evidente che la crisi dei servizi sociali che stiamo attraversando sia un impedimento molto più marcato di quello che fanno le famiglie. Per fare un esempio è evidente che per un ragazzo disabile sia molto difficile vivere la propria sessualità se non ha i mezzi e le possibilità per uscire, fare amicizie, conoscere altre ragazze ed eventualmente allacciare relazioni sentimentali. Il riconoscimento della Società intesa come istituzioni e servizi è solo formale dato che non c’è poi quel sostegno che sarebbe opportuno desse alle persone disabili e viene delegato tutto al singolo o alla famiglia. Se ci fossero più servizi e le cose fossero meno difficili, anche le famiglie sarebbe più tranquille nel lasciare spazio e autonomia ai figli/fratelli. In sintesi, agevolare l’emancipazione dalla famiglia delle persone disabili comporta automaticamente la possibilità da parte di tutti di vivere la sessualità più serenamente.
Durante le formazioni dirette a genitori, educatori o diretti interessati, quali sono gli ostacoli maggiormente riscontrati?Un problema strutturale è legato alla continuità dei progetti che purtroppo anche qui è inficiata dalla difficoltà di reperire risorse economiche. Rispetto al lavoro in sé e per sé la parte più difficile è quella di modificare gli atteggiamenti di base che sottostanno ai copioni comportamentali. Il lavoro di espressione e condivisione delle emozioni dà molte soddisfazioni e benefici, ma purtroppo quando si cerca di fare un lavoro un po’ più profondo si è già arrivati al termine del percorso. La parte psicoeducativa dell’intervento può dare solo frutti parziali in quanto molto spesso è necessario intervenire sugli stili di attaccamento e su complessi emotivi molto resistenti e questo necessita molto tempo in quanto non è sufficiente comunicare quali sono le cose più giuste da fare per far in modo che esse vengano fatte.
Dopo le formazioni dirette a genitori, educatori o diretti interessati ha avuto dei riscontri positivi, come ad esempio più tranquillità nell’affrontare la tematica dell’amore?Sì come ho detto prima, la condivisione dà molti risultati positivi in particolare il confronto fra persone con disabilità consente di acquisire fiducia e un senso di legittimazione che porta ad uscire dal guscio. Ovvio che poi nel relazionarsi con le persone da un punto di vista erotico-sentimentale ci si può imbattere in delusioni e contrattempi, ma il fatto di avere uno spazio di condivisione aiuta molto. A volte questo tipo di setting può agevolare l’accettazione di avere relazioni e flirt con persone che condividono la condizione di disabilità a volte del tutto rifiutata, soprattutto dai giovani. Con ciò non voglio dire che una persona disabile dovrebbe farsi piacere per forza un’altra persona disabile, ma neanche escluderla a priori. Tante relazioni e storie d’amore che danno molte soddisfazioni, si allacciano tra persone entrambe disabili.
In molti paesi europei è ormai presente, da circa dieci anni, la figura professionale “dell’assistente sessuale”, in Italia invece no. Qual è il suo parere in merito a questa figura? Saranno strutturati servizi di assistenza/educazione sessuale secondo lei?Devo dire che visto il momento economico degli enti locali e delle istituzioni statali mi sembra molto improbabile che venga istituito e finanziato un servizio di assistenza sessuale laddove non si riesce a garantire l’assistenza di base. Oltre a queste difficoltà pratiche di origine economica, credo che si dovrebbe delineare meglio la funzione dell’assistenza sessuale. Dovrebbe servire ad aiutare una persona con difficoltà motoria a fare sesso con un’altra persona o a praticare l’autoerotismo? Dovrebbe soddisfare direttamente i desideri sessuali della persona disabile? Dovrebbe insegnare come si fa l’amore a persone che hanno handicap intellettivi? Da quanto ho appreso nei colloqui con familiari di persone con handicap mentale, mi sembra che la fantasia sia proprio quella che
venga istituita una figura professionale che surroghi la funzione di un partner: una sorta di prostituzione istituzionalizzata prodromica magari all’abolizione della legge Merlin. Questa ipotesi a mio avviso, è una risposta ad una concettualizzazione meccanicistica della sessualità secondo la quale l’eccitazione sessuale ha un’origine biologica e il suo esito naturale sarebbe lo sfogo fisico in sé e per sé. Eppure se si presta attenzione alla realtà e ci si confronta con i racconti delle esperienze sessuali dei ragazzi con disabilità si rileva che le esperienze sessuali fatte con persone estranee sono poco soddisfacenti, a volte traumatiche e comunque non soddisfano il desiderio più complesso di avere una relazione e sperimentare l’innamoramento. In sintesi la mia opinione è che questa opzione non può essere applicata a tutti i disabili eventualmente utilizzata nei casi limite di ragazzi con grave ritardo mentale e forti problematiche relative al controllo degli impulsi sessuali. E comunque la funzione non dovrebbe essere quella di fare sesso con queste persone, ma aiutarle a conoscere il loro corpo e a tramutare in comportamenti funzionali i propri impulsi sessuali ad esempio insegnando la pratica dell’autoerotismo e le limitazioni del vivere sociale. Legittimare il ricorso ad un’assistente sessuale per tutti i disabili rischia di diffondere un pesante stigma sociale secondo il quale i disabili non possono sedurre e/o far innamorare nessuno e per garantire loro l’espressione della propria sessualità occorre istituire una figura professionale che per lavoro e non per sentimento fa sesso con questi.
Come potremmo intervenire nel contesto sociale per migliorare il rapporto con la sessualità nel disabile?L’intervento deve essere a più livelli: psicologico, sociale, economico, culturale, ecc. Per quanto attiene al lavoro specifico della psicologia è necessario innanzitutto aiutare da una parte i ragazzi disabili a consapevolizzare o rinforzare la propria legittimazione ad essere al mondo. Avere il diritto ad essere al mondo significa anche sentire di poter dare molto alle altre persone: l’amore e il piacere sessuale sono forse le forme più alte di contributo che si può dare agli altri. Per fare ciò è necessario ripercorre i primi anni di vita e il trauma che la coppia genitoriale ha vissuto nel momento della diagnosi della patologia del nascituro. Questi aspetti hanno inevitabilmente delle ricadute nella cura del bambino e sul suo stile di attaccamento che come è noto influenza in età adulta le relazioni intime.
Per concludere, la sessualità è caratterizzata da molteplici sfaccettature, cosa pensa lei del diritto alla sessualità nella dimensione disabile?Che un diritto inalienabile di ogni persona e che trovo anche indicativo che esso debba essere ribadito per quanto riguarda le persone disabili. Allo stesso tempo la sessualità è in stretto contatto con l’amore e questo non può essere indotto attraverso alcuna tecnica né decretato per legge. I tecnici e i politici possono darsi da fare per creare le condizioni necessarie affinché le persone disabili possano vivere la propria sessualità, ma nessuno ha il potere di far innamorare qualcuno come cupido. Discorso diverso è la legittimazione a vivere la sessualità e ad esprimerla, questa è una battaglia che ogni persona disabile, ogni familiare e ogni operatore dovrebbe sposare, perché negare il diritto ad esprimere la propria sessualità è, a mio avviso, equiparabile alla negazione della natura umana. Non esiste essere umano che non provi sentimenti e desideri sessuali.
Sono Manuela Lobefaro, nata a Bari il 29/05/1986. Nel 2013 ho conseguito la Laurea Specialistica in Scienze della Formazione indirizzo “Educatore e Coordinatore dei Servizi Educativi e dei Servizi Sociali” con voto 110/110 tesi: “IL DIRITTO ALLA SESSUALITA’. PROSPETTIVE E PROPOSTE EDUCATIVE NELLA DIMENSIONE DISABILE” argomento spesso rimosso e affrontato con disagio, in una società che carica di stereotipi, considera i protagonisti come asessuati ed eterni bambini, sottovalutando ed annullando la sfera sentimentale ed affettiva, tanto presente quanto importante per lo sviluppo e il benessere del singolo. Sono cresciuta con due fratelli, di cui uno affetto da Sindrome di Down, si chiama Dario e probabilmente grazie a lui è nato in me l’amore e il rispetto verso ogni disabilità. Nel corso degli anni tirocini, volontariato presso associazioni ed esperienze scolastiche di assistenza scolastica specialistica come educatore mi hanno continuato a far crescere. La tesi della Laurea triennale in Scienze dell’educazione e della formazione “Educatore nei Servizi socio culturali e interculturali” tratta un argomento altrettanto delicato relativo agli abusi e alle violenze verso i soggetti diversamente abili.
CLICCA QUI per scaricare il curriculum della dr.ssa Lobefaro
“Inside out” film di animazione della Pixar, versione moderna dello storico cartone animato francese Il était une fois… la Vie(titolo italiano “Siamo fatti così”), è una splendida ed elegante rappresentazione del processo di costruzione della personalità, basato sulle emozioni e sulla sedimentazione dei ricordi importanti della propria vita.
Sottile quanto efficace descrizione di come tutti gli aspetti importanti della storia personale e dell’identità possono essere messi a rischio quando si smarriscono gli “oggetti” della nostra vita quotidiana e i cambiamenti ambientali radicali determinano uno stravolgimento delle abitudini di vita.
Il valore di questo film di animazione sta nel messaggio, rivolto soprattutto a genitori ed insegnanti, circa l’importanza di accogliere tutte le emozioni e sui rischi di indurre, nei bambini e negli adolescenti, un processo di frammentazione della loro personalità in via di definizione, nel momento in cui si forza l’espressione delle SOLE emozioni positive per venire incontro ai bisogni degli adulti.
Tristezza non è una malattia, bensì un’emozione fondamentale nell’incassare le avversità della vita e nel rinsaldare le relazioni importanti. Non bisogna averne paura e non bisogna circoscriverla o distrarla. Tutt’altro, ci sono momenti della vita nei quali occorre lasciarle il comando, saprà lei quando la sua funzione è terminata e può lasciare il posto a Gioia…
“Io prima di te” non ha l’ironia di “Quasi amici” né l’intensità di “Mare dentro”… ma lancia messaggi brutti e pericolosi infiocchettati in una storiella d’amore stile hollywoodiano.
La questione eutanasia è come nitroglicerina: bisogna maneggiarla con estrema attenzione altrimenti si rischia di fare danni… e in questo caso sono danni mediaticamente amplificati.
Nel film il protagonista si rivolge ad un’organizzazione (realmente esistente) che ha sede in Svizzera la quale si occupa tra le altre cose di suicidio assistito: come si evince dalla carta intestata della lettera che riceve il protagonista (con logo reale) la società si chiama Dignitas e il suo slogan è “Vivere degnamente, morire degnamente”.
Lo slogan riflette la mission dell’organizzazione che è quella di, da una parte, assistere le persone con disabilità nella gestione delle questioni assistenziali e sanitarie al fine di perseguire uno stile di vita dignitoso, dall’altra guidare e aiutare, le persone che ne fanno richiesta, a suicidarsi… dignitosamente.
Visto il ricorrere ridondante dell’accostamento tra eutanasia e dignità, voglio subito dire che la condizione di disabilità gravissima non è una condizione in sé e per sé indecorosa: chi ha la forza e il coraggio di sopportare una condizione di allettamento o di mobilità ridottissima, di sopportare dolore o non poter parlare e/o di dover svolgere gli atti fondamentali della vita, come respirare o nutrirsi, attraverso l’ausilio di dispositivi, HA DIGNITA’ DA VENDERE ED UNA STATURA MORALE CHE NESSUN ATLETA POTRA’ MAI RAGGIUNGERE!
In secondo luogo, voglio dire che ciò che può mortificare una persona fino a farla sentire indegna, è il modo in cui è costretta a vivere allorché non le viene fornito il supporto assistenziale/tecnologico di cui necessità per esprimere le proprie facoltà oppure quando le viene negato il rispetto che merita. Corollario a ciò: un qualsiasi Stato che si voglia qualificare civile, evoluto e rispettoso della qualità della vita dovrebbe dare fondo a tutte le sue risorse per garantirne a tutti un livello elevato.
Detto ciò, credo anche che il vissuto di sofferenza di chi vive una condizione estrema di malattia e disabilità sia un fatto tanto privato da rendere le scelte che ne derivano esclusivamente attinenti alla sfera dell’autodeterminazione. Non è pertanto in discussione il concetto in sé e per sé di suicidio assistito o eutanasia la cui definizione porta ad un dibattito filosofico ed etico che va ben oltre le possibilità del sottoscritto e di questo articolo.
Ciò che sconcerta è l’operazione (temo consapevole) di inserire messaggi che accostano la disabilità ad una condizione di inferiorità ontologica, in maniera quasi subliminale visto il tono di commedia amorosa che attraversa quasi tutto il film.
Nel brano riportato poc’anzi il protagonista, nello spiegare le motivazioni della sua scelta, afferma: “non sarò mai il tipo d’uomo che accetta tutto questo…” e la domanda è: quale sarebbe il tipo d’uomo che accetta e sopporta una condizione di limite estremo? Di certo non il ragazzo atletico, affascinante e di successo che era stato Will Trainor prima dell’incidente, forse un uomo mediocre e che nella vita si accontenta.
Si dà in pasto all’opinione pubblica una visione delle persone con disabilità come di persone più semplici che sanno accontentarsi, non di persone dotate della straordinaria e rarissima capacità di assaporare e godere delle cose positive della vita.
Non è sufficiente neanche il fatto di aver coinvolto sentimentalmente una ragazza, di averla resa felice e di averla aiutata a crescere caratterialmente, affinché il ragazzo si senta al riparo dai soliti cliché:
il disabile non può dare tutto quello (?) che può dare un uomo normodotato;
che lei andrà di sicuro incontro ad una serie di rimpianti (c’è una coppia nel mondo in cui non ci sia qualche rimpianto o dispiacere?);
lei rimarrà con lui solo per pietà….;
entrambi saranno insoddisfatti sessualmente (la sessualità non è solo fallica ha mille forme e modalità che possono rendere una coppia come quella del film soddisfatta).
In quest’altro brano Will spiega come la sua nuova condizione non abbia possibilità di dargli più alcuna soddisfazione perché stritolata dal ricordo di quella precedente: ogni tentativo di fare nuove esperienze nella condizione attuale avrebbe solo l’effetto di sporcare i ricordi perfetti della sua vita prima dell’incidente. Piuttosto che affrontare la vita futura con la fierezza di chi sa che il rifiuto e il pietismo sono limiti morali dell’altro e non sono insiti nella condizione di disabilità, si è rintanato in una vita di solitudine, in attesa della guarigione prima e, una volta persa la speranza, della morte.
In quest’ultimo brano che propongo il padre di Will dice: “No, lascia che lo faccia da solo, Will ha bisogno di potersi sentire un uomo.”, lasciando ad intendere che la sensazione di esserlo è una dolce illusione che viene concessa dalla madre lasciandolo alle cure amorevoli dell’assistente/partner. Ma Will è un uomo in quanto tale e in qualsiasi situazione. La disabilità non lo ha privato né della sua appartenenza al genere Umano, né della sua maturità e capacità di giudizio, né della sua carica erotica.
Per una trattazione più profonda del tema eutanasia…