Eschilo scrisse che: “In guerra la prima vittima è la verità”. E in questa deportazione, indotta dalle guerre e che somiglia sempre di più ad una guerra, analogamente soccombe l’identità delle persone che sono costrette ad emigrare, la loro storia, la consapevolezza del loro essere umani.
I bimbi diventano cadaveri alla deriva, le persone una massa indistinta e fastidiosa da sfamare e poi smistare. Eppure per ognuna delle centinaia di migliaia di persone che stanno arrivando in questi anni in Europa c’è una storia da raccontare e un futuro da costruire, tanti affetti abbandonati e dei progetti da realizzare. Povertà, paura e sofferenza certo, ma anche molta dignità.
Dai media si sente parlare con superficialità di quote di migranti per ogni Paese, si allestiscono i centri di smistamento come se le persone fossero un grande gregge da portare al pascolo, senza considerare che ogni persona, quando ha affrontato un viaggio che gli è costato tutti i beni materiali che possedeva e magari anche persone care, probabilmente lo ha fatto pensando a dove andare, presso quali persone conosciute e con quale progetto.
Qualche tempo fa ha destato scalpore la notizia di lamentale da parte degli immigrati per il malfunzionamento del Wi-Fi e lo scarso numero di Pc. L’indignazione che ne è scaturita non teneva conto del fatto che internet, soprattutto per i più poveri, è diventato un mezzo di comunicazione irrinunciabile per chi ha lasciato a migliaia di chilometri di distanza i propri affetti e la propria casa. L’unico modo per dire: “non sono affogato, ce l’ho fatta”, per chiedere: “siete ancora vivi?”, per dire: “mi dispiace ma non ce l’ha fatta”, per chiedere “esiste ancora la nostra casa?”.
Allo stesso modo, chi grida allo scandalo (o semplicemente se ne stupisce) per gli atti di violenza attribuiti a persone immigrate, non sembra voler tener conto del fatto che costoro possono covare risentimento, rabbia e odio per la povertà, le persecuzioni e le sofferenze dalle quali sono scappati o per i comportamenti lesivi della loro dignità, per lo sfruttamento e per la discriminazione che incontrano nei Paesi che li “ospitano”. Essere rinchiusi in centri di “accoglienza” insieme ad altri 3000 sconosciuti è di per sé alienante. In Italia si sono condotte grandi battaglie per la de-istituzionalizzazione delle persone con disabilità fisica, intellettiva e psicologica che hanno portato alla chiusura degli istituti manicomiali e degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ma da quasi 20 anni sono stati istituiti altri istituti per la permanenza e l’identificazione degli immigrati che hanno il medesimo effetto alienante in chi vi è rinchiuso.
Con buona pace di chi vorrebbe arrestare, anche ricorrendo alla violenza l’”invasione” e dei teorici dell’unicità dell’etnia per ogni Stato, è necessario prendere atto che le dinamiche macro sociali innescate dalle politiche internazionali del secondo dopoguerra hanno reso il fenomeno dell’immigrazione un processo inarrestabile… urge solo trovare il modo per rendere questo fenomeno meno traumatico possibile per tutti.